Angelo Branduardi e le «radici che non gelano mai»

Il maestro menestrello della musica italiana sarà in scena all’Auditorium parco della Musica, con il tour “Camminando Camminando”, il 10 marzo

Il maestro menestrello della musica italiana sarà in scena all’Auditorium parco della Musica, con il tour “Camminando Camminando”, il 10 marzo  

Originale e inimitabile. Resiste alle mode, al tempo e alle tentazioni dei social network. È Angelo Branduardi, sessantasette anni, milanese di nascita e genovese di formazione – da sempre curioso ricercatore musicale, appassionato di musica classica, medievale e di diverse culture folk. Il maestro e menestrello della musica italiana è in procinto di approdare all’Auditorium parco della Musica venerdì 10 marzo con il “Camminando Camminando 2017”, tour che lo vede insieme sul palco insieme al grande compositore e musicista Maurizio Fabrizio, autore di grandi successi per gli interpreti storici della musica italiana e collaboratore ed amico di Branduardi da una quarantina di anni.

Un concerto a quattro mani e svariati strumenti, dalle chitarre al violino, dai flauti, al pianoforte e altro ancora, per i due polistrumentisti che proporranno diverse rivisitazioni di titoli di repertorio del cantautore storicamente poco eseguiti, oltre naturalmente ai grandi classici firmati da Branduardi, per una serata d’incanto tra musica e parole.

Lo spettacolo ruota intorno alle atmosfere acustiche dell’ultimo disco “Il rovo e la rosa, ballate d’amore e di morte” (2013), lavoro che si ispira alle cosiddette “Child ballads”, la monumentale antologia che il musicologo Francis J. Child raccolse nell’Ottocento compendiando il patrimonio culturale del folk inglese, scozzese ed irlandese, soffermandosi sulle arie dell’età Elisabettiana in voga a cavallo tra Cinque e Seicento. Si intuisce dunque il viaggio musicale in cui si è proiettati grazie alla musica dei due polistrumentisti, che guidano gli spettatori alla ricerca dell’emozione profonda.

In scaletta anche classici brani di Branduardi, come “Confessioni di un malandrino”, “La luna”, “Il dono del cervo” o “Alla fiera dell’Est”, una delle canzoni più popolari di sempre che, quando uscì nel 1976, sbancò con tre milioni di copie. E poi l’omaggio di Maurizio Fabrizio che interpreta “I migliori anni della nostra vita” di Renato Zero, di cui è autore, e di Branduardi che ricorda il concittadino Fabrizio De André con «Geordie». Tante canzoni, ma soprattutto uno stile inconfondibile, capace di trasportare chi ascolta in un’altra dimensione, come ci racconta in esclusiva lo stesso Branduardi.

Il suo tour “Camminando camminando” è giunto alla terza edizione. Che cosa rappresenta questo cammino per lei?

Rappresenta quello che succede quando uno fa un viaggio, che nel mio caso dura da decenni. Ho iniziato a studiare musica a 5 anni. A volte sono caduto, ho fatto bene, ho fatto male. Ma è la tipica situazione in cui non conta il punto di arrivo, ma il viaggio in sé, sembrerà un po’ banale ma è così. Tutte queste esperienze che mi capitano, essendo io ipersensibile, le sento molto e diventano impulsi di creatività che si materializza in quello che faccio.

Nel tour precedente si era esibito con una formazione più rock. A cosa si deve il cambio di passo?

Non sono mai stato rock e adesso ancora meno. Certo, l’apporto ritmico è bello, importante, primitivo, suggestivo, ma adesso mi interessa poco. Questo concerto è diverso dagli altri, con la sua forma complessa ma godibilissima, di polifonia chitarristica molto ricca che facciamo con Maurizio Fabrizio senza guardarci.

Con Maurizio Fabrizio siete in cammino da oltre 40 anni…

Sono 45 ormai. Nel dialetto usato tra noi musicisti si chiama “accrocchio” quella sintonia che si crea sul palco e ci permette di suonare ad occhi chiusi, sempre sapendo quello che sta facendo, o sta per fare, l’altro. In termini meno popolari si chiama polifonia, appunto.

Come si “sveste” una canzone?

Si comincia a vedere che ci sono cose che non servono. Quando uno fa l’arrangiamento di un brano, si tende a riempire i vuoti, invece per il processo di sottrazione si fa il contrario, i vuoti si creano. É una specie di cosa estraniante, un’armonia indefinita, un tentativo di creare magia, che secondo me viene creata più dal vuoto che non dal suo opposto. Ed è quello che permette di proiettarci lontano dal “qui ed ora”.

Durante il concerto lo spettatore è invitato a chiudere gli occhi e immaginare di sollevarsi da terra. Come si riesce a creare questa empatia?

Fa parte della magia. Ci sono volte in cui succede più facilmente. Normalmente, se siamo tutti in forma, sia noi che pubblico, è facile ottenere questo luogo che porta in un’altra dimensione. La musica deve essere visione, quella capacità di vedere al di là della porta chiusa, di scorgere quello che è ancora segreto. Anch’io oggi mi godo di più i miei concerti, canto e suono in modo più lineare, meno fiorito, ma mi diverto molto.

Lei ha sempre associato l’ispirazione a un dono divino. Come è maturata oggi questa riflessione?

Tutto quello che io scrivo è sacro e allo stesso tempo non lo è. Nelle mie opere ci sono tanti riferimenti a regioni diverse. Ad esempio ne “Il dono del cervo”, ritroviamo un’immagine buddista. E anche nelle leggende che ho musicato, ci sono tanti riferimenti. All’inizio di questo concerto c’è un breve excursus di musica antica, che, a sua volta, parte con della musica sacra antichissima, un modo per ricordare le nostre radici, perché come diceva Tolkien, le radici profonde non gelano mai.

 

3 marzo 2017