Anders, lo smarrimento dell’esule

Nell’esistenza dell’autore, segnata dalla fuga e dall’erranza, la forza e la legittimità delle riflessioni presenti nel testo, sulle conseguenze nefaste di ogni sradicamento

«Nessuno può muoversi per anni esclusivamente in idiomi che non padroneggia e che, nel migliore dei casi, si limita a usare in maniera corretta ma meccanica, senza risentire della propria inferiorità linguistica. Perché come ci si esprime, così si diventa»: è un brano di L’emigrante (Donzelli, traduzione e introduzione di Orlando Franceschelli, postfazione di Florian Grosser) che Günther Anders, l’indimenticabile autore di L’uomo antiquato e La coscienza al bando (in cui presentava un carteggio col pilota di Hiroshima Claude Eatherly), pubblicò nel 1962 sulla rivista “Merkur”, testo finora inedito in Italia.

Pagine di sorprendente attualità grazie alle quali possiamo comprendere le conseguenze nefaste di ogni sradicamento: se la madrelingua dell’esule, costretto a vivere in una nazione non sua, comincia a “sgretolarsi”, pezzo a pezzo, relegata in una dimensione notturna, mentre l’idioma acquisito si limita a decodificare la realtà, senza riuscire a percepirla nel profondo, il parlante diventa balbuziente, umiliato e pieno di vergogna, anche rispetto a quelli che Primo Levi definiva «i sommersi» (ieri i deportati scomparsi nelle camere a gas dei lager, oggi gli affogati nel Mar Mediterraneo) e mai veramente adulto, non in grado di garantire una continuità biografica alla memoria che anzi si sfalda anche perché gli emigranti (non immigrati, per evitare il punto di vista monoculare dei nativi) non hanno una sola vita da ricordare, bensì tante vitae che si sovrappongono una sull’altra senza riuscire ad amalgamarsi. Per farlo non basterebbe una generazione.

Günther Anders (pseudonimo di Günther Siegmund Stern, scelto per rispondere al desiderio di un redattore il quale gli aveva chiesto di firmare in modo diverso i suoi articoli e anders in tedesco significa proprio questo: “altro, differente”), ebreo, nato nel 1902 a Breslavia (come Edith Stein e Dietrich Bonhoeffer), marito di Hannah Arendt, da cui divorziò nel 1937, cugino di Walter Benjamin (suicida nei Pirenei durante la tentata fuga dal Terzo Reich), sapeva ciò di cui scriveva, essendo vissuto ad Amburgo, Marburgo e Parigi prima di trasferirsi, nel 1936, a New York e Los Angeles. Tornò a Vienna, la città della seconda moglie, Elisabeth Freundlich, soltanto dopo la fine della guerra. Un’esistenza segnata dalla fuga e dall’erranza che garantisce forza e legittimità alle riflessioni presenti in Der Emigrant, le quali tuttavia raggiungono il punto di massima intensità nelle righe finali quando Anders, con scarto inaspettato, attribuisce valore universale allo smarrimento dell’esule arrivando a definire «buona» l’epoca da lui vissuta. Come se la natura dello spatriato evocasse il destino di tutti noi, determinando la volontà di esprimere chi siamo: «In tali circostanze alcuni sono diventati scrittori ». Cos’è in fondo la letteratura se non un modo di dare senso e valore alla condizione umana?

15 novembre 2022