Amore e responsabilità secondo Jack Savoretti

L’artista anglo-italiano, ai vertici delle classifiche in Gran Bretagna, fa tappa a Roma giovedì 18 aprile, all’Atlantico, con il suo ultimo album “Singing to Strangers”

Nonostante i 13 anni di carriera, l’essere stato supporter di Bruce Springsteen  e Neil Young aprendo i loro concerti, essere nel cast stellare di “Queenie Eye”, il video di Paul McCartney girato negli Abbey Road Studios londinesi, insieme ad attori come Meryl Streep, Johnny Depp, Sean Penn, Jeremy Irons e altri ancora, l’essere attualmente in cima alle classifiche di vendita in Gran Bretagna con il suo ultimo album in cui c’è anche un inedito di Bob Dylan (Touchy situation), approvato in tempi brevi dal folk singer premio nobel e la prevista chiusura del suo tour già sold out nientemeno che alla Wembley Arena di Londra, Jack Savoretti qui da noi è ancora tutto da scoprire. Trentasei anni, sposato, due figli, nato a Westminster (Londra) da madre tedesco-polacca e padre italiano, spedito nel Regno Unito dal nonno di Jack, il medico Giovanni Savoretti (da cui l’artista prende il nome), uno dei partigiani che contribuì a liberare Genova dai nazifascisti, dopo essere stato testimone di una rapina in banca, l’ex golden boy della musica inglese è ormai un gran talento conclamato. Lo scorso febbraio Jack si è esibito al Festival di Sanremo nella serata dei duetti, con gli Ex Otago, con i quali ha appena registrato una nuova versione di “Solo una canzone” e qualcuno avrà notato la sua voce “ruvida, profonda e nostalgica”, come l’ha definita il Daily Telegraph. Ora torna in Italia per tre concerti e dopo Padova e Milano, sarà a Roma il 18 aprile all’Atlantico.

Il suo ultimo albumSinging To Strangers”, uscito il 15 marzo, interamente registrato in Italia durante l’estate 2018, raccoglie 11 inediti ed è prodotto da Cam Blackwood. In questo disco l’artista compie un’evoluzione nel suono che lo ha sempre contraddistinto, incidendo le tracce insieme alla sua band composta dai chitarristi Pedro Vito e Sam Lewis, il bassista Sam Davies, il batterista Jesper Lind, il direttore musicale Nikolai Torp e Davide Rossi, grande polistrumentista che ha curato tutta la parte degli archi all’interno dell’album. “Singing To Strangers” segna una linea di demarcazione nel percorso artistico di Jack Savoretti, che dice di rifarsi al cantautorato di artisti come Bob Dylan, Simon & Garfunkel, Serge Gainsbourg, Lucio Battisti e Fabrizio De André e in questo album, che lui definisce «la colonna sonora di un film immaginario», attinge a sonorità europee anni Cinquanta e Sessanta, tra Italia, Francia e Spagna. Basta ascoltare brani come “Candlelight” che sembra fatta per “007”, “Dying for you love” che ricorda il cinema di Quentin Tarantino, “Going home” con i suoi echi di “Hey Jude” in chiave gospel-pop, “Youth and love” o “What more can I do?”, che ricordano il Marvin Gaye dei primi anni ’70, e “Things I thought I’d never do”, che strizza l’occhio all’Elton John dello stesso periodo. Fra le bonus track ci sono due pezzi registrati dal vivo alla Fenice di Venezia: “Music’s too sad without you” con Kylie Minogue e “Vedrai vedrai” di Luigi Tenco che sfuma in “Oblivion” di Astor Piazzolla. L’abbiamo raggiunto telefonicamente mentre è in Inghilterra, impegnato nelle prove del tour, per parlare della sua musica, di rispetto, dell’amore e dell’Europa.

Presentando il disco hai dichiarato che è un album romantico, che racconta «la battaglia tra l’amore e il dovere». Che volevi dire?
Credo sia una cosa comune. Da giovane segui le passioni, cerchi cosa vuoi fare ma non cosa devi fare. A una certa età capisci che ci sono delle responsabilità, legate anche alle persone che ami, e i figli sono l’esempio di questo. Non avevo mai pensato che l’amore fosse una questione di responsabilità e, stranamente, mi piace ancor di più proprio per questo, non vivo le responsabilità che vengono con l’amore come un peso ma mi sento appagato.

Hai registrato il disco a Roma (nello studio di Morricone), hai girato il video di “What More Can I Do?” a Roma, quanto ti ha influenzato la città eterna e come la vedi da fuori?
La vedo in tanti modi. Ho capito che quando vieni a Roma ti devi adattare e non puoi provare a cambiare le cose. Quando sono arrivato a Roma con tutta la band, che ha varie provenienze, ho detto loro che dovevano godersi Roma per la sua bellezza ma anche accettarla per i suoi inconvenienti.

Andando a ripescare nel repertorio degli anni Cinquanta e Sessanta, hai dichiarato che ti ha colpito l’eleganza degli artisti. Oggi in effetti look e comportamenti sono molto opinabili. Che ne pensi?
È una questione di rispetto del pubblico. Anche io sono stato vittima di questo all’inizio. Poi, dopo 12 anni di live, ho capito che il pubblico va rispettato anche nel modo di presentarsi, che non è solo una questione di abito da sera ma proprio di atteggiamento. Bisogna sempre essere onesti con il pubblico, capire quanto valgono le persone, quanto costa loro venire a sentirti ai concerti. Il mio ultimo album parla molto di questo, ecco perché si chiama “Cantando agli sconosciuti”. Anche se uno viene a dieci show, devi sempre cantare per quella persona come se fosse la sua prima volta, con la speranza che alla fine della serata andiamo via tutti amici!

Nel tour italiano collabori con Afra Kane, cantautrice italo-nigeriana che ci riporta al soul e jazz di Aretha Franklin, Otis Redding. È un caso la doppia origine come la tua?
In realtà l’ho scoperta su instagram, mi ha colpito la sua musica e dopo ho scoperto che aveva origini italiane. È un vero talento e sono molto contento che venga a suonare con me e di farla conoscere. Il mio pubblico è variegato, c’è un po’ di tutto e anche la sua musica può arrivare a tutti.

A proposito, hai mai pensato di cantare anche in italiano?
Nell’album nella special edition c’è una cover di Luigi Tenco “Vedrai, vedrai”, registrata alla Fenice di Venezia. Ma scrivere in italiano non mi viene. Cioè, sarebbe facile scrivere canzoni banali ma per scrivere capolavori come “Anna e Marco”, “La donna cannone” o “Dio è morto” ci vuole una grande padronanza che io non sento di avere. Ma chissà, magari un giorno… Però cantare in italiano mi piace molto: Battisti, Tenco, li adoro.

Hai dichiarato che adesso vivi nella campagna inglese dove hai riscoperto la tua italianità, in che senso?
Nel senso che sono l’italiano del villaggio. La prima settimana che eravamo qua ho incontrato una signora che si è messa a parlarmi lentamente in inglese! La cosa mi ha fatto ridere ma anche riflettere sull’avere molti tratti italiani che non pensavo fossero evidenti. Questo mi ha fatto venire voglia di far capire ai miei figli che anche loro hanno sangue italiano dentro, e allora ci siamo messi ad ascoltare musica italiana, a vedere film italiani.

A un mese dalle elezioni europee, a te che sei un mix di provenienze, una domanda su come vedi l’Europa…
Bella domanda. Dovremmo essere molto più fieri della nostra identità europea. Non ci sono tanti posti nel mondo dove la generazione attuale non è a disagio per la sua sicurezza o per il suo passato. Io ho sangue tedesco, ebreo, italiano, inglese, austriaco e posso dire al cento per cento che non c’è in Europa un Paese che provi rabbia per quello che è successo negli ultimi cento anni e credo che questa non sia una cosa da prendere alla leggera ma di cui essere fieri. Da qui partire per capire cos’è il progetto europeo, che non è solo una questione economica o burocratica ma è cercare la nostra identità. Dovremmo essere molto più aperti e molto più fieri e non rinchiuderci neanche nei nostri Paesi ma talvolta nelle nostre regioni. Questo rinchiudersi invece che aprirsi mi stupisce. Abbiamo bisogno di persone che uniscano.

12 aprile 2019