“American tune”, Paul Simon e la disillusione verso la politica

Il brano scritto nel 1973 dal musicista di Newark nella versione “live” eseguita a Central Park con Art Garfunkel

La disaffezione degli italiani verso la politica è un dato evidente, lo si è visto anche alle recenti elezioni regionali in Sardegna, dove ha votato poco più della metà degli aventi diritto. Un dato peraltro tipico di tutte le società occidentali, che manifesta il crescente malcontento delle persone nei confronti di chi è al potere. Tra i segnali, anche il disinteresse nell’informarsi fino a non parlare più di politica, visto che secondo i dati Istat oltre un terzo degli italiani non ne parla mai. Un “riflusso” nel privato, prova di una disillusione senza più speranze di cambiamento, soprattutto di fronte agli scandali che hanno segnato e segnano il mondo della politica.

Anche la musica ha saputo cantare questa disillusione, con il contributo di artisti intelligenti e creativi, toccati anch’essi dalle ferite inferte alla democrazia. È il caso di Paul Simon, ritiratosi un anno fa dalle scene, protagonista del sodalizio con Art Garfunkel e musicista eclettico con una lunga produzione che ha toccato vari generi, dal folk alla world music.

“American tune” è il brano che vogliamo ricordare oggi, nella versione “live” tratta dal famoso concerto nel Central Park di New York che il 19 settembre 1981 riunì Paul Simon e Art Garfunkel davanti a circa 500mila persone dopo diversi anni di separazione. La serata è una pietra miliare nella storia della musica pop/rock, in cui spicca questa canzone scritta nel 1973 dal 77enne musicista di Newark. Pochi mesi prima Richard Nixon era stato rieletto alla presidenza degli Stati Uniti (nell’agosto 1974 dovette rassegnare le dimissioni in seguito allo scandalo “Watergate”), la guerra in Vietnam sembrava senza sbocchi e continuava a seminare morte; era l’anno del golpe di Pinochet in Cile. Un tempo buio che Simon decise di cantare così.

«Molte volte ho sbagliato, molte volte mi sono sentito disorientato / Spesso mi sono sentito tradito, e anche usato contro la mia volontà / Ma va tutto bene, va tutto bene, sono solo stanco fin nelle ossa / D’altra parte, non ti aspetti di essere brillante e uomo di mondo / Così lontano da casa, così lontano da casa / Non conosco un’anima che non sia stata ferita / Non ho un amico che si senta in pace col mondo / Non conosco di un sogno che non sia stato infranto / o messo in ginocchio».

Se nella melodia del brano orecchie esperte riconosceranno echi di un’aria della “Passione secondo Matteo” di Bach, il testo fa riferimento appunto alla disillusione dell’uomo rispetto al contesto socio-politico, senza riferimenti politici precisi sull’attualità statunitense, che del resto non facevano parte dello stile di Simon. In un viaggio narrativo caratterizzato da sogni che portano a sorvolare la Statua della Libertà e a tornare col pensiero alla “Mayflower”, la nave con la quale i padri pellegrini, i primi colonizzatori degli States, salparono nel 1620 dall’Inghilterra («nave che salpò per la Luna», canta l’autore – il primo “sbarco” sulla Luna era di appena quattro anni prima -). Un viaggio, però, che alla fine non concede troppo spazio alla speranza.

«Arriviamo al momento più incerto di ogni epoca / e cantiamo una melodia americana / Ma va tutto bene, tutto bene / Non si può essere sempre baciati dalla sorte / Però domani sarà un altro giorno di lavoro / E sto solo cercando di riposarmi un po’ / questo è tutto, sto solo cercando di riposarmi un po’».

Paul Simon ha eseguito tra l’altro “American tune” a Washington la sera che precedeva il giuramento di Carter come presidente. Il brano ha avuto tante interpretazioni di artisti americani, in Italia è stato Ivano Fossati a proporla nei suoi concerti, e la definì un “inno alla libertà”. Merita dunque riascoltarla.

5 marzo 2019