Alfie Evans, l’ultima carta della famiglia è un ospedale italiano

Nel giorno in cui a Liverpool è prevista la sospensione della ventilazione assistita per il piccolo di 23 mesi al centro di uno scontro fra genitori e sanitari, la famiglia ribadisce la richiesta di trasferirlo. Appoggio anche dal Papa

Prima, in un colloquio con la famiglia, la rassicurazione che una nuova valutazione della situazione del bambino sarebbe stata effettuata, anche sulla base di nuovi pareri e ipotesi di trasferimento all’estero sopraggiunti nelle ultime ore; poi, poco dopo, la richiesta di conferma – rivolta all’Alta Corte inglese – di poter applicare fin dalla giornata di oggi, venerdì 6 aprile, la sentenza che autorizza quel distacco della ventilazione che porterà alla morte del piccolo. «Siamo stati ignorati, ci hanno dato false speranze: siamo disgustati da quello che hanno fatto».

Nelle parole di Thomas Evans e Kate James, genitori di Alfie Evans, bimbo inglese di 23 mesi ricoverato da oltre otto mesi all’Arder Hay Hospital di Liverpool, con la rabbia verso i sanitari dell’ospedale c’è anche tutta la tragedia di una famiglia alle prese con una malattia degenerativa praticamente sconosciuta (il piccolo non ha mai avuto una diagnosi certa) e tutto il dolore per un percorso giudiziario – dai tribunali britannici fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo – che come già accaduto in passato per altri casi simili (su tutti quello di Charlie Gard) ha visto contrapposti da un lato i medici intenzionati a porre fine alla vita del bambino e dall’altro i genitori, appesi alla speranza di poter portare altrove il proprio figlio per la continuazione delle cure, anche solo quelle palliative.

Situazioni che negli ultimi mesi hanno fatto molto discutere, con i giudici unanimi nel sostenere la posizione dei medici britannici intenzionati a sospendere la ventilazione assistita dei piccoli pazienti: decisioni prese – come dichiarato nelle sentenze – avendo come punto di riferimento il “miglior interesse” per i medesimi bambini, identificando dunque quale migliore via di azione la sospensione delle terapie che li mantengono in vita, qualificate come “accanimento terapeutico”. «Inclemente, ingiusto e inumano», secondo i giudici, ogni ulteriore proseguimento delle cure. Così è stato per Charlie Gard (morto nel luglio 2017), così è stato poche settimane fa (marzo 2018) per Isaiah Haastrup, 11 mesi, e così potrebbe essere per Alfie Evans. Storie diverse, diagnosi diverse, problematiche diverse, ma unite da un comune destino: la serietà della situazione clinica e il ricovero in un ospedale del Regno Unito, dove le prassi in materia di assistenza intensiva ai neonati o ai bambini di tenerissima età sono diventate molto selettive, e sempre più spesso sfociano in una guerra giudiziaria fra strutture sanitarie e famiglie.

Come per Charlie Gard si erano aperte le porte di un trasferimento, poi sfumato, al Bambino Gesù di Roma (che dipende dalla Santa Sede), anche per Alfie Evans si parla dell’Italia, in particolare di Milano e di Roma (anche se non vi sono notizie ufficiali in tal senso): i genitori comunque hanno chiesto in queste ore ai medici di «valutare con calma la possibilità di trasferire il paziente in Italia, anche a seguito di nuove disponibilità da parte di aziende specializzate nel trasporto aereo di malati». I genitori, che hanno criticato la gestione terapeutica attuata dai medici di Liverpool, puntano anche sul fatto che all’Arder Hay Hospital non si è mai arrivati ad una diagnosi certa e che ulteriori esami potrebbero essere compiuti altrove. Difficile prevedere se il trasferimento del piccolo ci sarà davvero. Quel che è certo è che finora tutte le richieste in tal senso avanzate dalle famiglie in casi simili non sono state esaudite, nonostante la indubbia valenza medica e scientifica delle strutture sanitarie che avevano dato la disponibilità ad accoglierli (con costi di trasporto interamente sostenuti dalle famiglie, grazie alle donazioni ricevute).

Così come accadde per Charlie Gard, anche per Alfie è intervenuto Papa Francesco, che mercoledì sera, 4 aprile, in un tweet in lingua inglese, poi replicato anche in italiano, ha scritto: «È la mia sincera speranza che possa essere fatto tutto il necessario per continuare ad accompagnare con compassione il piccolo Alfie Evans e che la profonda sofferenza dei suoi genitori possa essere ascoltata. Prego per Alfie, per la sua famiglia e per tutte le persone coinvolte».

Stato d’animo che dà voce ad un movimento che con petizioni, manifestazioni e momenti di preghiera appoggia la richiesta dei genitori. Ma il tweet del pontefice fa molto di più, perché proprio le parole di papa Bergoglio contro l’accanimento terapeutico (scritte in un messaggio inviato a monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, il 7 novembre 2017, a margine di un convegno internazionale tenutosi in Vaticano sul fine vita) sono state ampiamente citate – all’interno della sentenza del 20 febbraio scorso – dal giudice Anthony Hayden a sostegno della sua decisione di sospendere le cure e porre fine alla vita del bambino. Un particolare che aveva fatto scalpore e aveva fatto gridare alla “strumentalizzazione”. E che rende evidente, soprattutto, come con la medesima formula del “rifiuto dell’accanimento terapeutico”, nella pratica comune si stiano intendendo ormai due accezioni profondamente diverse: la prima, quella di far ricorso a cure palliative e terapia del dolore per rendere meno dolorosa e più dignitosa possibile l’ultima fase della vita di una persona malata, attendendo che sopraggiunga la morte; e la seconda, quella di interrompere pratiche come l’idratazione o la ventilazione assistita (anche contro il parere dei familiari più stretti) di fatto accelerando la fine di una vita ormai avvertita come non più dignitosa.

6 aprile 2018