Alcolisti Anonimi: il segreto nella condivisione delle esperienze

L’esperienza dell’associazione a sostegno di chi cade nell’abuso di alcol. L’indagine: in Italia si inizia a bere in età adolescenziale o giovanile (67,5%)

L’esperienza dell’associazione a sostegno di chi cade nell’abuso di alcol. L’indagine: in Italia si inizia a bere in età adolescenziale o giovanile (67,5%)

L’anonimato, inteso come discrezione a tutela dei membri e dei loro familiari o amici, è una delle regole dell’associazione Alcolisti Anonimi. Anzi, la regola. Tanto da portarla incisa nella sua stessa dicitura. La ragione è evidente: in un mondo fatto anche di immagine, specie quella che gli altri si fanno di ciascuno di noi, l’essere identificati come alcolisti equivale ad essere condannati ad una “fine pena: mai”, ad aver commesso un delitto efferato ma con la differenza, qui, che la vittima è chi abusa, o ha abusato dell’alcol, facendo del male a se stesso e alle persone amate.

«Ognuno ha la sua motivazione per cadere nell’abuso di alcol. Vuoi per ragioni lavorative, affettive, a causa della precarietà o per solitudine – racconta Massimo, che frequenta il gruppo di mutuo aiuto da 14 anni e che da 11 può dirsi sobrio -. Personalmente non me lo chiedo più, piuttosto mi chiedo come fare per non ricascarci». Non si può dire, infatti, che una volta venuti fuori dalla dipendenza si è al riparo per sempre. Alle riunioni ci si confida e ci si ritrova a raccontare storie simili di chi beve lontano dagli altri, di notte. «L’alcolismo solitario spinge su un’isola. Non si hanno più relazioni – continua Massimo -. L’io gonfiato ti fa credere di non avere speranze o, al contrario, di farcela da solo». In realtà, con la lucidità smarrita, da soli non si ha la forza per rialzarsi. A bussare alla porta degli Alcolisti Anonimi «ci si arriva allora perché si è all’ultima spiaggia, perché è un familiare a spingerti, come ha fatto mia moglie con me quando mi ha detto “Vai da un medico o anche da uno stregone. Insomma vai da chi ti pare ma fai qualcosa”».

Quando Massimo arriva al primo incontro quasi stenta a credere ai suoi occhi e alle sue orecchie. «Non hanno il naso rosso», scherza. «Hanno visi sorridenti e ti chiedi “Perché mi aiutano?”. Poi pensi che se ce l’hanno fatta loro, potresti farcela anche tu». Certo, non è facile ma la condivisione delle esperienze porta buoni frutti. Nel 2011 i servizi generali dell’Associazione Alcolisti Anonimi Italia hanno elaborato una indagine interna a cui hanno aderito, su base volontaria, 756 membri, provenienti dal Nord nel 66% dei casi e in gran parte uomini (68,9%), con famiglia (59,5%), di età compresa tra i 40 ed i 60 anni (56,2%) e che da un punto di vista del sostegno economico ha una qualche forma di reddito (ben l’82%). Si tratta dunque di «una malattia “democratica” – sintetizza Massimo – perché  può colpire chiunque».

Dall’indagine emerge che si inizia a bere in età adolescenziale o giovanile (67,5%) e che si prende consapevolezza di avere un problema solo dopo i 30 anni (69,6%) ma, frequentando Alcolisti Anonimi, poche o nulle sono le ricadute (76,9%). A essere coinvolte nel dramma sono quasi sempre anche le famiglie e il contesto sociale allargato a causa di possibili comportamenti violenti. Una madre racconta la sua esperienza nell’associazione di mutuo aiuto “Gruppi familiari Al-Anon”, che, come per gli Alcolisti Anonimi, si basa sul metodo dei 12 passi ed è dedicato ai familiari che hanno avuto la vita messa a soqquadro da un bevitore problematico. «Ti chiedi in continuazione “Dove sarà ora?”», racconta la donna, che ha avuto il figlio alcolista.

Nata negli Usa nel 1951, oggi Al-Anon conta circa 25.200 gruppi, distribuiti in 115 Paesi. In Italia opera dal 1976 con circa 420 gruppi, spesso paralleli a quelli dell’associazione Alcolisti Anonimi, nata invece nel 1935 negli Usa ma autonoma da loro. «Il controllo ossessivo e la paura di ciò che succederà incide a livello lavorativo: non riesci a concentrarti e prima di cercare aiuto, passano decenni. Io ho impiegato 7-8 anni prima di rivolgermi a qualcuno. Mi facevo domande: “Dove avrò sbagliato?”». Aderendo al programma, questa madre inizia però a guardarsi dentro: «Piano piano ho cominciato a mettere in pratica il cosiddetto “distacco con amore”, un distacco emotivo, sebbene continuassi ad amare mio figlio come persona». Oggi continua a prestare servizio nell’associazione, grata di quanto ricevuto: «Aprendo quella porta ho trovato tanti che mi hanno aiutato e non sarebbe stato così se, al contrario, dopo essere tornati a stare bene avessero abbandonato il gruppo».

8 giugno 2015