Al via la presidenza Trump: il “ritorno” della geopolitica nel mondo multipolare
Gli Usa puntano a riaffermare la loro egemonia, riducendo delegando il peso delle crisi agli alleati. L’esempio: la richiesta ai Paesi Nato di aumentare le spese militari. Numerose le incognite
Quali saranno le svolte in politica estera promesse da Trump, ora che si è appena insediato? Nonostante la nebulosa dei proclami, qualche indizio concreto si dà. Le ultime dichiarazioni, anche le più provocatorie, delineano un controllo esclusivo sulle parti di mondo elettivamente ascritte all’egemonia diretta degli Usa, intenti a estromettere la concorrenza per non farsi soffiare sotto il naso occasioni propizie. Il che dà comunque atto della competizione multipolare, pur interpretata in modo muscolare. Senza mascheramenti ideologici e, se necessario, senza sconti agli alleati: “America first!” vuol dire anche spazzare via impegni logoranti per scaricarli su altri. La richiesta ai gregari Nato di spendere il 5% di Pil in riarmo ha valenza duplice, che non significa affondare l’Alleanza. La minaccia del ritiro dall’Alleanza mira ad aumentare l’export del comparto militare Usa, permettendo altresì di delegare le crisi locali ai satelliti più idonei.
Le esternazioni su Panama, Canada e Groenlandia suggeriscono l’attenzione alle continuità territoriali di una potenza continentale. Un ritorno alla geopolitica territorialista del passato, che per gli Usa risale alla Dottrina Monroe. Nel 1823 l’omonimo presidente postulò la competenza esclusiva degli Usa sulle Americhe, attuata dalla “diplomazia delle cannoniere” e poi sublimata dal Corollario con cui Theodore Roosevelt – Nobel per la Pace 1906 per la mediazione nella guerra russo-giapponese – enunciò il compito degli Usa di intervenire nelle disfunzioni del Nuovo Mondo con iniziative di polizia internazionale. Con due guerre mondiali, la Dottrina, snaturandosi, finì per allargarsi a nuove latitudini, fino all’epilogo della guerra fredda, quando al realismo si è sostituito l’universalismo liberale, lanciato verso una governance globale sotto la regia unipolare Usa.
Novello Th. Roosevelt, Trump non invaderà Panama, Canada e Groenlandia, dove pure la presenza cinese va crescendo. Ma possiamo immaginare iniziative sulla scorta di altre antecedenti dell’800, quando l’Alaska e Florida vennero rispettivamente comprate da Russia e Spagna. La Groenlandia sarebbe un ottimo affare. La Danimarca non ha i mezzi per sfruttarla appieno e, cedendola, si libererebbe dai sussidi elargiti agli abitanti locali, agitati (specie gli Inuit) da speranze indipendentistiche. L’isola (1/4 del suolo Usa) invece è assai preziosa per chi, con il pane, abbia anche i denti: per gas, petrolio, terre rare, uranio ecc., ma anche per la partita delle rotte artiche. Il disgelo del futuro infatti aumenterà la disponibilità di tratte navali brevissime tra i continenti dell’emisfero boreale. Quantunque non acquistabile, il Canada si presta a calcoli analoghi. Stringerlo di più alle agende di Washington gioverebbe ad ampliare la proiezione artica, mentre gas e petrolio canadesi consentirebbero agli Stati Uniti di esportare energia senza penalizzare il fabbisogno per il rilancio dell’industria nazionale. D’altra parte le mire cinesi sulla calotta glaciale disturberebbero anche la Russia, che vanta un primato costiero presidiato dalle sue rompighiaccio. Anche perché il piede artico del Dragone ridurrebbe la dipendenza energetica e metallifera di Pechino da Mosca. E questa, per Trump, sarebbe una carta da giocare per eventuali accomodamenti con il Cremlino.
Del resto, anche Russia, Cina e India coltivano le proprie “dottrine Monroe” sulle rispettive aree di influenza. Sicché il realismo trumpiano potrebbe articolare transazioni pragmatiche con gli altri attori multipolari, riconoscendone di fatto una certa parità di rango. È sintomatico che Trump – immemore del ruolo svolto dal suo primo mandato nel naufragio degli Accordi di Minsk, nelle liaison atlantiche dell’esercito ucraino di Poroshenko e nel recesso unilaterale degli Usa dal Trattato Inf sui missili a corto e medio raggio siglato con l’Urss nel 1987 – abbia definito comprensibili le preoccupazioni russe sulla pistola Nato puntata alle porte di Mosca, affermando che Washington ebbe lo stesso cruccio per Cuba e Latinoamerica. È chiara l’intenzione di sottrarre la “sua America” alla sconfitta annunciata in Ucraina, per addebitarla al complesso euroatlantico guidato da Biden. Capitalizzando i guadagni ricavati dal divorzio euro-russo, la pace che Trump promette equivarrebbe a un congelamento del conflitto, mentre Mosca pretende una soluzione stabile e definitiva. Ma poco importa se la mediazione trumpiana fallisse: fuori gli Usa, l’Europa – sempre più divisa – potrà scegliere se e come continuare a implicarsi nel fallimento.
Il Medioriente è altra questione. Trump è riuscito a imporre la tregua per via di ingredienti fondamentali, assenti sul quadrante russo-ucraino. Il primo è l’ascendente diretto sull’attore prevalente: nella fattispecie, Israele, dipendente come non mai dagli Usa, sfiancato dal massacro di Gaza e frustrato dalla persistente resistenza di Hamas. L’altro ingrediente è l’interesse diretto a interrompere il conflitto: per rilanciare gli Accordi di Abramo e imbarcarvi l’Arabia Saudita, da sottrarre alle malie cinesi, per poi consegnare la regione alla luogotenenza israelo-saudita.
Eppure le incognite ci sono e pesano molto. Le divisioni Ue frantumeranno la fedeltà a Washington? Con un’escalation europea gli Usa starebbero a guardare? Cosa farà Netanyahu, schiacciato dalle pressioni degli ultrasionisti al governo? Come trattare la deterrenza dell’Iran spinto nell’abbraccio russo? Quali ostacoli verranno dalle mire turche, per il tramite della nuova Siria? Su questi e altri nodi si misurerà l’efficacia pragmatica del nuovo corso trumpiano. (Giuseppe Casale)
20 gennaio 2025