Al Museo della Liberazione si respira la Resistenza

Partigiani, ebrei, altri oppositori del regime tra i duemila detenuti del carcere nazista meta di tante visite soprattutto nel 25 aprile. Vi furono reclusi anche don Pappagallo e don Morosini

In via Tasso si respira ancora la Resistenza. È nell’aria che attraversa le grate delle finestre di quello che, tra il 1943 e il 1944, fu un carcere nazista. In questo luogo la Resistenza si osserva dal vivo. È incisa, anche con le unghie, sulle pareti delle celle d’isolamento dei prigionieri. «La morte è brutta per chi la teme», ha scritto qualcuno nello spazio in cui luce e aria non erano ammesse.

Ma è anche custodita negli oggetti personali degli almeno 2mila detenuti (di cui circa 400 donne) che sono transitati da un luogo simbolo della storia di Roma e dell’Italia intera. Oggi quei cimeli sono sotto gli occhi di migliaia di persone che ogni anno si recano in via Tasso per visitare il Museo storico della Liberazione. «Il 25 aprile è la giornata in cui riceviamo in media tra le 500 e le 700 persone», racconta il presidente del Museo, Antonio Parisella.

Ne parla mentre alcune scolaresche esplorano i tre piani dell’edificio indagando l’agghiacciante passato ricostruito dai giornali clandestini esposti. «Questi studenti – spiega – sono prenotati da ottobre». Da aprile 2021, con la pandemia alle spalle, le visite d’istruzione sono aumentate notevolmente. Al punto che nel 2023 il numero di visitatori potrebbe sfiorare quota 15mila. Ogni anno arrivano circa 700 classi da ogni zona del Paese: «Sono venute scuole dalla Valle d’Aosta e dalla Sicilia – prosegue Parisella – in visita a Roma appositamente per vedere il museo storico di via Tasso». A guidare le visite sono in venti, tra docenti in pensione e volontari, capaci di trasferire alle nuove generazioni la portata storica del luogo che, dopo l’armistizio del ‘43, venne adibito a carcere delle SS.

«Spesso i più giovani non conoscono il 25 aprile, ma quando lo conoscono se ne innamorano», dice il presidente del Museo. Qui si scopre che la Resistenza «è stata di tutti», perché nelle celle di via Tasso non finivano solo «i combattenti della Resistenza o gli ebrei – spiega Parisella –, ma qualsiasi persona che avrebbe potuto fornire informazioni sulla deportazione nazista». Tra loro, molti giovanissimi come Arrigo Paladini (23 anni) e Giuliano Vassalli (29 anni). Il carcere di via Tasso era un luogo di transito. «Le violenze avvenivano negli uffici dove si svolgevano gli interrogatori», precisa Parisella. Qui la morte era un pensiero costante, ma si è consumata pochissime volte tra le mura che occludevano le finestre del carcere nazista. Non perché i prigionieri venissero liberati, ma perché la maggior parte di loro veniva trasferita nel carcere di Regina Coeli dove, al contrario di via Tasso, era consentito ricevere cibo e biancheria dai familiari.

«Coraggio amore, baci», le parole che una mamma ricamò sul calzino per suo figlio. Molti altri, invece, venivano inviati al Tribunale di guerra tedesco per essere trasferiti nei lager di lavoro forzato oppure fucilati a Forte Bravetta o alle Fosse Ardeatine, dove persero la vita in 335 tra militari, professionisti, commercianti, studenti, operai, e contadini. Tutti identificati (tranne 11) grazie a brandelli insanguinati di vestiti, come quelli del comandante Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Oppure, grazie a oggetti personali come l’orologio del falegname Otello Di Peppe e lo strumento musicale del tenore Nicola Ugo Stame. 

Tra le 335 vittime delle Fosse Ardeatine ci fu anche don Pietro Pappagallo. L’unico sacerdote morto nell’eccidio fu imprigionato nella cella numero 13 di via Tasso. «Della sua permanenza qui non si sa molto», spiega Antonio Parisella. La sua scheda carceraria fornisce poche informazioni. Al momento dell’arresto, il 29 gennaio 1944, il sacerdote aveva con sé un portafogli e una matita. Don Pappagallo fu raggiunto nella sua casa di via Urbana, all’Esquilino, perché aiutò i perseguitati dal regime. Un’azione che gli valse il sacrificio, ma anche il riconoscimento di martire da parte di Papa Giovanni Paolo II. «L’aiuto si manifestava in tanti modi e quello dei documenti falsi era sicuramente il più importante», precisa Parisella. Probabilmente don Pappagallo fu vittima di una soffiata, forse da parte di qualcuno che frequentava la sua canonica. Pugliese di nascita, era un fraterno amico del professor Gioacchino Gesmundo, suo concittadino di Terlizzi (Bari), anche lui martire delle Fosse Ardeatine.

Tra le sale del Museo si scorgono alcuni spartiti. Riproducono una composizione musicale firmata da don Giuseppe Morosini, «musicista affermato che aveva studiato al conservatorio di Vicenza», dice di lui Parisella. È la ninna nanna che il sacerdote, arrestato dai nazisti per “sospetto di traffico di armi e spionaggio”, scrisse per il futuro terzo figlio di Epimenio Liberi, suo compagno di cella durante la detenzione a Regina Coeli. «Ma è una ninna nanna per un bambino mai nato», spiega Parisella: «Quando Liberi fu ucciso, la moglie abortì». Don Morosini non cedette alle torture dei nazisti. Venne fucilato il 3 aprile del 1944 a Forte Bravetta.

24 aprile 2023