«Addio a tutto questo» di Graves, apologo della pace

L’opera di esordio dello scrittore inglese ristampata da Adelphi si inserisce nella tradizione dei libri scaturiti dalla Grande Guerra

L’opera di esordio dello scrittore inglese ristampata da Adelphi si inserisce nella tradizione dei libri scaturiti dalla Grande Guerra

I romanzi e le poesie scaturiti dalla Grande Guerra scoprono, assai più dei manuali di storia, la tragedia di quella carneficina. Ce la fanno sentire ancora nostra. Come dimenticare la ritirata di Caporetto siglata in Addio alle armi di Hemingway? Gli implacabili referti bellici di Jünger resteranno incisi per sempre negli annali. Il grandioso elogio della vigliaccheria tracciato nella prima parte di Viaggio al termine della notte di Céline è destinato a non cancellarsi mai. La visione drammatica di Cendras, le avventure picaresche di Hasek, il sentimento ferito di Remarque, la riflessione antieroica di Lussu e Ungaretti, il vaniloquio dannunziano, la potenza etica di Jahier, l’esame di coscienza di Serra…

Non si finirebbe più di citare i capolavori nati nel fango e nella violenza degli attacchi all’arma bianca in un’Europa che sembrava divorare se stessa, tra la Somme e il San Michele e che oggi sembra talvolta aver dimenticato i massacri precedenti al suo tentativo di unificazione, quasi fosse scaturita dal nulla e non da un conflitto fra i più cruenti della storia. In questa illustre tradizione va collocata l’opera d’esordio di Robert Graves, Addio a tutto questo, ristampata da Adelphi (pp. 398, 20 euro) nella classica traduzione di Annalisa Carena, impreziosita da una nota di Ottavio Fatica.

Se ci limitassimo a leggere le cento pagine iniziali, questo libro del 1929 sembrerebbe un romanzo di formazione, nella tipica tradizione inglese, tra Fielding e De Foe: le rocambolesche avventure di un giovane che diventa adulto. Ma si tratta in realtà soltanto di un rullo di tamburi. Nel momento in cui il protagonista si arruola nell’esercito britannico e parte verso il fronte la narrazione si trasforma in un diario degli orrori e, implicitamente, in un apologo pacifista.

Colpisce lo sguardo asciutto eppure partecipe dello scrittore che lascia filtrare in ogni descrizione, perfino la più cruenta, l’inconfondibile humor della sua terra. Si tratta di uno schermo utile a non deformare la visione, necessario a mantenere una distanza mirata rispetto alle sconvolgenti azioni belliche. L’ufficiale al centro del racconto, impegnato a comandare uomini spesso più anziani di lui, deve trovare il modo di eseguire il mansionario senza impazzire. Da ogni sua decisione dipende la vita e la morte di altri. In mancanza del whisky – una bottiglia al giorno era per lui, come per molti, indispensabile – sarebbe stato impossibile resistere allo scempio quotidiano dei corpi maciullati, degli ordini insensati, della disorganizzazione permanente. Dopo diverse ferite, il capitano, che era stato dato per morto, torna a casa.

L’ultima parte del testo illustra le sue peripezie matrimoniali, insieme al ricordo di almeno due memorabili incontri: quello con il colonnello Lawrence, il quale aveva guidato la riscossa araba contro i turchi, e quello con Thomas Hardy, cantore della brughiera e lucido interprete dell’inquietudine umana. In apparenza non avrebbero potuto esserci due scrittori più antitetici: nomade e combattente uno, sedentario e ozioso l’altro. Ma lo sguardo di Robert Graves li unisce nel contrasto che entrambi vissero e rappresentarono fra vecchio e nuovo mondo.

25 gennaio 2017