Ad Aleppo sempre meno medici negli ospedali

Prima della guerra negli ospedali erano 6500, attualmente sono 2000. A raccontarlo, al Campus Biomedico, il chirurgo siriano Emile Katti

Prima della guerra negli ospedali erano 6500, attualmente sono 2000. A raccontarlo, al Campus Biomedico, il chirurgo siriano Emile Katti 

Un appello alla comunità internazionale affinché intervenga per ristabilire la pace in Siria e tolga l’embargo internazionale, «una misura che penalizza chi lavora in ambito sanitario e sta mettendo in ginocchio le strutture ospedaliere. In Siria passano le armi ma non le attrezzature mediche». A parlare è Emile Katti, medico chirurgo direttore dell’ospedale Al-Rajaa (in arabo La Speranza) di Aleppo, in Siria, di proprietà della Custodia di Terra Santa. Lavora in quella terra martoriata dalle bombe da 23 anni. Ha raccontato la sua esperienza di lavoro durante il convegno “La vulnerabilità dell’umano: la sfida delle popolazioni fragili alla sanità pubblica” che si è svolto questa mattina, lunedì 28 novembre, organizzato dal Polo di ricerca del Campus Bio-Medico.

Questo è il sesto anno di guerra in Siria, «la seconda guerra mondiale è durata meno – prosegue Katti – Aleppo è la città più martoriata dalla guerra. L’ospedale Al-Rajaa si trova nella parte ovest dove vivono due milioni di civili, tutti privati dai ribelli di elettricità e dell’acqua». Ad Aleppo «prima della guerra lavoravano 6.500 medici, attualmente sono 2.000. Presso Al-Rajaa erano 100, ora, invece, operano 60 medici. Per salvare la propria vita e quella dei familiari, hanno deciso di lasciare la Siria. Scelta mai presa in considerazione da Katti che nonostante abbia rischiato la vita 4 volte rimane al suo posto. Vivo il mio lavoro come una missione con la “M” maiuscola. È questo che mi spinge ad andare avanti. Il mio angelo custode mi ha protetto 4 volte, spero che continui a far bene il suo lavoro anche in futuro».

L’ospedale Al-Rajaa offre prestazioni mediche gratuite ai civili vittime della guerra «senza distinzioni di razza, religione, sesso. Il nostro cuore è aperto a tutti e con i nostri mezzi limitati continuiamo anche a curare le malattie croniche. Ogni anno medichiamo e curiamo migliaia di vittime della guerra, molte delle quali sono bambini». Tra questi, Katti, ne ricorda due: un bambino di 8 anni giunto in ospedale con gravissime ferite dovute allo scoppio di una bomba mentre giocava nel giardino di casa. «Aveva un gruppo sanguigno rarissimo – racconta –. Un medico della nostra equipe è donatore universale e ha potuto salvargli la vita non solo con la sua professionalità». Il chirurgo ricorda anche una ragazza di 16 anni che a causa dei traumi della guerra ha tentato il suicidio più volte».

«Oltre a curare il corpo ora sto studiano un progetto per guarire “le fratture dell’anima”. Sono centinaia le vittime con stress post traumatico». Il popolo siriano ora «vuole la pace e la comunità internazionale deve aiutarci in tal senso. Soprattutto deve aiutare i siriani a dialogare tra loro e trovare una soluzione. Il popolo siriano non deve essere vittima degli interessi geo economici e politici delle potenze mondiali». Sulle “fratture dell’anima” si è soffermato anche Giorgio Minotti, neo preside della Facoltà di Medicina e chirurgia del Campus Bio-Medico. «Il sogno di ogni migrante è quello di tornare a casa propria – ha detto –. L’impossibilità di raggiungere questo obiettivo, non fa altro che aggiungere dolore su dolore».

Maurizio Lopalco, direttore sanitario del C.a.r.a. (Centro di accoglienza per richiedenti asilo) di Castelnuovo di Porto, parlando de “La salute nei centri di accoglienza migranti” ha evidenziato che la situazione sanitaria «è buona perché c’è un’ottima collaborazione tra i team del Cara e il sistema sanitario nazionale. Questo ci permette un doppio livello di attenzione: quello per la medicina di base e quello per la medicina specialistica. I migranti partono dal loro Paese in perfette condizioni di salute. Si ammalano durante il viaggio. Ci si aspetta da loro malattie come l’ebola, la tubercolosi, l’Aids, ma l’incidenza di queste patologie, che devono essere individuate per curare l’immigrato ed evitare epidemie, è bassissima. L’epidemia più importante che abbiamo avuto in questi due anni è stata la varicella e si sono ammalati gli immigrati, non noi».

Per Salvatore Geraci, responsabile dell’area sanitaria della Caritas di Roma, «dal punto di vista sanitario l’Italia ha affrontato il tema immigrazione in modo lungimirante e adeguato. Nonostante questo c’è un deficit di governance e una incoerenza istituzionale: spesso un Ministero non sa quello che fa un altro ministero».

28 novembre 2016