A San Policarpo il ricordo di don Roberto Sardelli

La Messa presieduta dal vescovo Guerino Di Tora. «La parola che lo contraddistingueva era “oltre”, che sottintendeva un principio di non appagamento. Questa è la sua eredità più viva»

Don Roberto Sardelli, ribattezzato “il prete delle baracche”, è stato «uno di quei coraggiosi protagonisti di una Chiesa desiderosa di recuperare la freschezza e la radicalità dell’annuncio evangelico e ha sofferto come tanti profeti». Il vescovo Guerino Di Tora ha ricordato con queste parole il sacerdote fondatore della “Scuola 725” morto a Pontecorvo, sua città natale, il 19 febbraio scorso, all’età di 83 anni, nella Messa che ha presieduto ieri, 26 febbraio, a San Policarpo, dove don Sardelli era stato collaboratore parrocchiale dal 1968. All’epoca a pochi passi dalla chiesa, nelle arcate dell’Acquedotto Felice, era nata una baraccopoli occupata da 650 famiglie italiane immigrate provenienti da Sicilia, Calabria, Abruzzo e Basilicata. «Venivano accolti qui» ha spiegato il vescovo sottolineando che il romano medio, l’italiano in genere, è «sempre stato accogliente». Oggi però capita che, «per creare tensioni, vengano evidenziati solo certi aspetti».

Forte dell’esperienza maturata alla scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani, don Roberto decise di trasferirsi nell’insediamento, un agglomerato di lamiere senza luce, acqua e fogne. Acquistò una baracca da una prostituta e la trasformò nella “Scuola 725”, dal numero civico del casotto, per bambini discriminati a scuola e ghettizzati nelle classi differenziali. «Il suo intento era quello di convincerli che non erano inferiori ai loro coetanei – ha affermato monsignor Di Tora -, voleva farli emancipare e restituire loro la dignità». Ogni venerdì sera nel casotto di nove metri quadrati una decina di sacerdoti si riunivano per leggere e meditare il Vangelo della domenica. «Era il suo modo di condividere la fraternità sacerdotale», ha spiegato ancora Di Tora svelando questo aspetto poco conosciuto della vita di don Roberto.

Durante la sua omelia, il vescovo ha letto anche alcuni brani della “Lettera al sindaco” scritta da don Sardelli con i suoi alunni per denunciare la condizione nella quale vivevano, una situazione drammatica che fu al centro anche del convegno del 1974 sui mali di Roma. Il sacerdote, ha sottolineato, ha trascorso una vita accanto agli ultimi «per incarnare il Vangelo di Gesù e contestualizzare la sua attività nell’esperienza del sacerdozio». Dopo lo sgombero della baraccopoli, avvenuto nel 1974, si è occupato dei rom, ha assistito i malati terminali di aids. «Il suo è stato un impegno poliedrico – ha evidenziato monsignor Di Tora -: un uomo con una grande inventiva e uno spirito sacerdotale vero, reale».

Il 21 novembre scorso don Sardelli è stato insignito anche della laurea honoris causa all’Università degli Studi Roma Tre, onorificenza ritirata due suoi ex allievi, Emilio Bianchi e Angelo Celidonio, che negli anni ’60 vivevano nella baraccopoli. «Era una persona ricca di tante cose – ha concluso il vescovo -. La parola che lo contraddistingueva era “oltre”, che sottintendeva un principio di non appagamento. Questa è la sua eredità più viva». Con il vescovo hanno concelebrato otto sacerdoti tra i quali l’attuale parroco di San Policarpo don Claudio Falcioni, alcuni ex parroci, l’attuale direttore della Caritas diocesana don Benoni Ambarus e il suo predecessore, don Enrico Feroci.

27 febbraio 2019