Gli adolescenti e il loro eccesso di vita

Chiunque viva la prossimità ai ragazzi, nonostante le domande irrisolte che li abitano, lo sperimenta come parola più autentica della morte che sembra toglierci il respiro

Con queste ultime righe si chiude il quinto anno della rubrica #quindiciventi, che Romasette.it e il suo direttore Angelo Zema hanno voluto affidarmi nell’estate del 2017. Avevo in mente di scrivere tutt’altro prima di questa pausa estiva, ma poi mi è caduto l’occhio sulla cartella dove ho archiviato tutti i contributi di questi cinque anni e li ho contati: 107 uscite, tutte all’incirca sulle 3mila battute, insomma circa 321mila battute in totale, ovvero un libro di medie dimensioni, ma soprattutto a tema unico: uno sguardo continuo su quella fascia particolarissima che sono le ragazze e i ragazzi dai quindici ai vent’anni.

Chi mi è vicino sa che, dopo i primi tempi nei quali ho dovuto prendere le misure con la rubrica, mi sono presto e fortemente affezionato a questo spazio quindicinale che è diventato una piccola finestra dalla quale affacciare il mio sguardo sul mondo, ma chi mi è vicino sa anche che la fatica maggiore non è stato tanto il tenere aperta quella piccola finestra, quanto capire cosa succedesse nel resto del panorama osservandone solo una parte. Eh sì, perché scrivere continuativamente per cinque anni di adolescenti, per di più dalla parte di chi – insegnante nella secondaria superiore – ha fatto sua quella prospettiva praticamente per tutta la vita, è indubitabilmente uno sguardo viziato sul mondo.

Provo a spiegarmi. Mi è capitato più volte di dire che se c’è una caratteristica discriminante che connota quell’età particolare, così come la scuola e i luoghi che le sono propri, è l’eccesso di vita rispetto alla dimensione del morire. Non che in quegli anni manchi il dolore, la domanda irrisolta, il buio del senso, ma è un fatto che chiunque viva la prossimità all’adolescenza sperimenti, in tutte le forme, spesso le più contradditorie, un eccesso, fosse solo biologico, comunque di vita. La domanda che quindi mi sono posto spesso, che mi pongo ora mentre rifletto sulle tante parole che anche io ho speso è dunque questa: al di là del farlo o non farlo, al di là di esserne interessati o meno, al di là del posto che si è stati chiamati a occupare nel mondo, cosa significa oggi, in questo tempo terremotato, a fronte delle nostre vite sempre più spesso impantanate nella pratica della sopravvivenza, fermarsi difronte alla domanda che l’esistenza stessa dell’adolescenza pone a noi adulti?

Mi verrebbero in mente tanti modi per cavarmela: discutere sulla minaccia inconscia che spesso è sale sulla ferita del nostro invecchiare, stare a ciarlare su come eravamo noi quando eravamo loro o su come loro nemmeno se lo chiederanno da adulti, tanta è divenuta la distanza, oppure smascherare il mio, il nostro tentativo parassitario di sentirci vivi nella difesa della loro causa, magari semplicemente e bonariamente ammettere che sempre così è stato, sì, quel tempo di fuoco che per tutti è passato ma che in qualche modo ci ha sempre interrogato. Ma l’anno è troppo andato avanti e forse, anche per me che rincorro le parole su questa rubrica, basterebbe riconoscere che quell’eccesso di vita è la parola più autentica – e infinitamente più forte – della morte che in questo momento pare toglierci il respiro.

20 luglio 2022