Il Covid-19 a due anni dal paziente zero

Il 21 febbraio 2020 veniva diagnosticato il primo caso, a Codogno. Cauda (Policlinico Gemelli): «Oggi il virus non è stato ancora sconfitto ma, come se stessimo giocando una partita a scacchi, possiamo dire che conosciamo meglio le sue mosse e che ci stiamo arroccando e difendendo»

Ricorre oggi, 21 febbraio, il secondo anniversario dalla diagnosi del primo caso di Coronavirus in Italia, quello emerso a Codogno. In quella stessa giornata il numero dei contagi salì velocemente a 15. In due anni ci sono stati oltre 12 milioni di diagnosi e 152.282 decessi. «Quel paziente non era il numero uno ma uno delle migliaia di pazienti ancora sconosciuti e asintomatici. Eravamo all’inizio e ancora non avevamo contezza che si trattasse di una pandemia». A dirlo è Roberto Cauda, ordinario di Malattie infettive all’Università Cattolica e direttore dell’Unità di malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma, che osserva anche come «oggi il virus non è stato ancora sconfitto ma, come se stessimo giocando una partita a scacchi, possiamo dire che conosciamo meglio le sue mosse e che ci stiamo arroccando e difendendo».

Roberto Cauda, infettivologo al GemelliLa maggiore conoscenza, quindi, ci rende più forti, allo stato odierno.
Sì, perché oggi rispetto a due anni fa dalla nostra parte abbiamo i vaccini e la capacità diagnostica e preventiva, con l’Italia che fa 1 milione di tamponi al giorno. Inoltre abbiamo i farmaci antivirali e monoclonali che consentono di ridurre il rischio delle forme gravi di malattia, soprattutto nelle persone anziane o in quelle che presentano una comorbidità. Ancora, si è capito come evolve la malattia, si è compreso che procede per fasi: da una iniziale e infiammatoria a quella che interessa i polmoni. Si è capito più di tutto che si tratta di una cosa molto seria, che ci ha fatto rivivere la situazione che si venne a creare con l’epidemia di spagnola, facendo emergere una fragilità generale, con la differenza che noi non ci trovavamo alla fine di una guerra e che avevamo dalla nostra la conoscenza scientifica evoluta, che in pochi mesi ha prodotto un vaccino. Sul Covid-19 si è imparato tanto e in fretta: pensiamo solo al fatto che nei primi tempi l’Oms stesso raccomandò l’uso delle mascherine solo per i malati, provvedimento che, come sappiamo, è durato davvero poco, diventando invece presidio di protezione fondamentale.

A fine marzo, con la fine dello stato di emergenza, l’uso della mascherina potrebbe venire meno anche al chiuso così come potrebbero venire meno altre limitazioni e lo stesso Green-pass. Siamo davvero pronti per un ritorno alla normalità?
Non mi stupirei se alla fine del prossimo mese lo stato di emergenza venisse meno ma va sottolineato che la pandemia non e non sarà finita e che il pericolo non sarà passato perciò anche se possiamo ipotizzare uno scenario ottimista penso che il ritorno alla normalità debba essere graduale e progressivo perché il virus sta tra di noi e sono possibili nuove varianti, per questo bisogna consolidare i risultati fino qui ottenuti ed evitare colpi di coda del virus, agendo con cautela e buon senso. Lo stato di emergenza potrebbe dunque terminare il 31 marzo ma il virus non ha certo il nostro calendario, quindi se da un lato è giusto rassicurare, nella certezza che una mano ce la darà anche la bella stagione, penso sia bene pensare ad esempio all’uso della mascherina ancora per un periodo sui mezzi pubblici o negli ambienti chiusi perché anche gli ultimi bollettini ci dicono che, nonostante l’Rt sia sceso a 0,73 e la situazione epidemiologica sia in netto miglioramento, siamo ancora lontani dai 50 casi per 100mila abitanti, livello di riferimento per il corretto contenimento dei contagi. Io non seguirei il modello del Nord Europa, della riapertura a tutti i costi. Di certo si è stanchi e del virus non se ne vuole più sentir parlare ma se è vero che non abbiamo più una vita uguale a prima, è anche vero che non rischiamo più le chiusure e gli isolamenti del primo periodo. Aprire a tutti i costi, insomma, potrebbe essere prematuro e un rischio. Quanto al Green-pass, è uno strumento che via via si è colorato di motivazioni politiche, in merito alle quali non entro. Dico che navigando a vista, come si sta facendo, cioè osservando i numeri dei contagi, non credo potrà durare ancora a lungo, venendo meno magari prima dell’estate. Ma preferisco essere cauto e non assertivo su quanto potrà accadere.

Quanto influisce la resistenza di molti a vaccinarsi, nonostante le 132.474.790 dosi di vaccino somministrate da fine dicembre 2020?
Un possibile scenario allo stato attuale è che la variante omicron possa attaccare le persone appunto non vaccinate, potendo arrivare a generare su queste persone e su quelle fragili ancora delle forme gravi di malattia. La platea dei contagiabili si è ridotta grazie ai vaccini somministrati che, due anni dopo il primo contagio, permettono di parlare di una prospettiva di stato endemico della malattia. Del resto, anche questo virus segue la legge della virologia: pervenuto ad una virulenza forte, si adatta in seguito all’uomo ed è ciò che sta accadendo.

Cosa si può ipotizzare invece in merito alla necessità di nuove dosi di vaccino? Al momento l’Aifa ha dato il via libera per la quarta dose per le persone immunodepresse.
L’immunità indotta dal vaccino potrebbe non durare a lungo con le tre dosi e potrebbero servire dei vaccini nuovi e aggiornati, magari di tipo multifattoriale, che stimolano la risposta cellulare, che è più duratura. Nuove dosi di vaccino saranno senza dubbio utili per le persone fragili. Anche in questo caso è bene agire con prudenza e cautela. Questo virus ci ha riservato spesso delle sorprese e purtroppo sorprese spiacevoli. La quarta dose magari non varrà per tutti in automatico ma sarà bene affidarsi alla letteratura e all’andamento della curva dei contagi per stabilirlo.

21 febbraio 2022