La casa famiglia a Villa Glori, vittoria della solidarietà

Dicembre 1988, su Roma Sette l’intervista a monsignor Di Liegro dopo l’apertura della struttura per i malati di Aids

L’apertura della casa famiglia per ammalati di Aids a Villa è una vittoria della solidarietà sull’intolleranza e della speranza sulla paura. Ne parliamo col direttore della Caritas diocesana Mons. Luigi Di Liegro. «Il vero significato dell’apertura è che, dopo il verdetto del Tribunale Amministrativo del Lazio che ha confermato la delibera comunale che istituiva la casa famiglia, mediatamente il segno di un’iniziativa che non si arresta. Essa va avanti a beneficio sia dei giovani affetti da Aids che attendono un servizio che riteniamo indispensabile, sia della stessa popolazione locale che trova in questa iniziativa un’opportunità per manifestare un’inversione di tendenza di ordine all’attenzione che si deve prestare a quanti si trovano in difficoltà».

Ritornando a mente fredda al periodo più caldo della contestazione lei si sarà forse dato una risposta sul perché di queste polemiche…

«Sono talmente irragionevoli le motivazioni addotte e talmente offensive dei diritti dei nostri fratelli che si trovano in difficoltà, che non vale neanche la pena di prenderle in considerazione. Peraltro tali motivazioni partono da una convinzione che questi giovani ammalati di Aids siano dei giovani di terza categoria. Questo è contro il valore della pari dignità di ogni cittadino. Se è vero che il parco di Villa Glori si trova nel quartiere Parioli non è altrettanto vero che sia di esclusivo uso degli abitanti dei Parioli, né tantomeno, di esclusivo uso di quanti stanno bene. Anzi se bisogna farlo dando uno sguardo a chi più ha bisogno di un ambiente tranquillo».

L’apertura della casa famiglia di Villa Glori e di quella di Campo de’ Fiori è un segno che è possibile vincere l’intolleranza e la paura della gente nei confronti di questa malattia e più in generale nei confronti dei diversi?

«Credo che il compito nostro, anche attraverso queste iniziative, sia quello di aiutare la gente a capire che se dall’Aids per ora no si può guarire, dalla paura invece si può guarire. Attraverso questi servizi dobbiamo dimostrare che è possibile condividere, senza atti di eccessivo eroismo, la sorte di sofferenze e di difficoltà che colpiscono queste persone che più di altre hanno il diritto di rimanere tra noi. Ci auguriamo che il prosieguo delle attività e quindi e quindi lo svolgimento delle iniziative collegate a queste case, possano dare un’ulteriore dimostrazione agli abitanti delle zone dove sono sorte e sorgeranno altre case che la discriminazione, oltre che essere un sentimento disumano, non è assolutamente necessaria perché non bisogna assolutamente difendersi da nessuno. Bisogna invece far emergere dalla nostra coscienza il sentimento di condivisione che è indispensabile per la nostra crescita umana ed è soprattutto urgente per creare un clima di speranza per quanti si trovano ad affrontare drammi così angosciosi come quelli collegati con l’Aids».

La Caritas ha scelto proprio il tema dell’Aids come uno dei temi di riflessione e di impegno nel tempo d’Avvento. Come mai?

«è una scelta naturale perché la speranza, cioè la vita, nasce proprio là dove c’è malessere, disperazione. Il Natale nasce proprio nel cuore del malessere dell’uomo, là dove non c’è più luce, non c’è più vita. Proprio lì deve sorgere questa salvezza dovuta alla presenza del mistero di Dio che si incarna negli avvenimenti più disperati e più dolorosi della storia umana. Il guaio è che talvolta le nostre predicazioni sono talmente astoriche che si dimenticano che il mistero di Dio si è incarnato e lo ha fatto nella storia umana, non fuori della storia. Il non inserire il mistero della nostra fede nei momenti più dolorosi e più drammatici della storia umana, significa rendere inutile l’incarnazione del Verbo».

Ma molti insistono ancora nel vedere l’ammalato di Aids come il perverso, il peccatore, il punito per i suoi errori…

«Questo è il giudizio degli uomini e non quello di Dio. Mi rifiuto di pensare che il Padreterno consideri i giovani affetti di Aids nella stessa maniera con cui noi li consideriamo. proprio perché Lui è un Padre, ha un comportamento di comprensione, di solidarietà proprio nei confronti di chi è schiacciato dalla violenza del male e quindi si trova nell’impossibilità di avere un filo di speranza. In questo momento di gravi e drammatiche difficoltà in cui si trovano ad esempio i malati di Aids è proprio qui che deve risplendere al luce di Betlemme, quella pace che viene come dono di Dio, come dono dell’onnipotenza dell’amore di Dio per dare all’uomo, anche là dove è difficile, quasi impossibile sperare, avere speranza. La speranza della vita che è un dono di Dio è molto più forte della morte».

Quale deve essere in questo campo il ruolo giocato dalle parrocchie?

«Dobbiamo portare le parrocchie ad essere, nel territorio in cui si trovano, operano e sono incarnate, il cuore di Dio. Cioè essere la manifestazione della bontà del Signore. La parrocchia che si rinchiude in se stessa non è immagine dell’amore di Dio che si incarnò nella storia ma invece può essere il simbolo della  paura. La paura non è un valore, dalla paura nascono solo il panico e la violenza. Dalla diffidenza nascono le barricate. La parrocchia non può restare indifferente. Quando noi diciamo, ad esempio, la parrocchia di Centocelle, diciamo la parrocchia per Centocelle. Non per nulla si parla di Chiesa locale: è la Chiesa di quel luogo che sposa tutti i problemi, le domande, le ansie, le speranze di quella realtà, come Gesù Cristo con l’incarnazione si è messo in comunione con tutte realtà umane per poterle salvare. La salvezza è vero che viene dal di fuori, è Dio che è la salvezza, ma è un Dio che ha scelto la via dell’incarnazione, della comunione, del matrimonio tra la natura umana. E così deve essere il matrimonio tra un’istituzione come la parrocchia con la realtà di un territorio».

Eppure in alcuni sembra esserci un arroccamento, una difesa.

«Ogni forma di arroccamento viene dalla mancanza di fede in un Dio che no si è tenuto per sé le sue prerogative ma che si è scomodato per portare la ricchezza della sua divinità non vicino all’uomo, dentro la sua storia. Il Regno di Dio è in mezzo a noi».

Anche dentro ai malati di Aids…

«Certo anche dentro di loro, dentro il popolo zingaro, gli immigrati, gli ammalati, gli handicappati, gli anziani. Direi che Dio si è reso l’Emmanuele proprio in queste realtà perché sono queste che hanno più bisogno di Dio. Chi sta bene non pensa a Dio. Chi sta male ha bisogno di speranza. E questa speranza è Dio stesso. Dio non ci fa un dono di qualche cosa, ma ci dona se stesso. Credo che la parrocchia debba essere l’immagine di Dio che si dona, che non ha paura, che non discrimina, che non ha creato apartheid tra lui e noi. Questo è il messaggio del Natale». (di Antonio Maria Mira)