Riforma psichiatrica e Opg, il punto in un convegno in Campidoglio

A 37 anni dalla “legge Basaglia”, confronto a più voci su un cambiamento di rotta ancora incompiuto. Don Manto: «Lavorare su educazione alla socialità»

A 37 anni dalla “legge Basaglia”, confronto a più voci su un cambiamento di rotta ancora incompiuto. Don Manto: «Lavorare su educazione alla socialità»

Trentasette anni fa, il 13 maggio 1978, entrava in vigore una legge rivoluzionaria, passata alla storia come legge Basaglia – dal nome del promotore della riforma psichiatrica in Italia -, grazie alla quale venivano chiusi i manicomi. Nelle intenzioni ebbe il merito di avviare un cambiamento di rotta – alla prova dei fatti, non compiuto del tutto in verità – e oggi, a un mese dalla chiusura degli Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari), nati a loro volta per sostituire i manicomi e ora rimpiazzati con le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), il tema è quanto mai controverso. A fare il punto sulla questione, con l’intento di dimostrare quanto l’inserimento sociale sia parte integrante nella promozione e tutela della salute mentale, il Vicariato di Roma insieme alla Regione Lazio e all’assessorato capitolino alle Politiche sociali hanno organizzato ieri, mercoledì 13 maggio, un convegno in Campidoglio.

«Spesso si è impegnati ad affrontare il disturbo psichico nella sua immediatezza, ponendo poca attenzione all’attività di prevenzione nel lungo periodo – sottolineano i promotori dell’incontro -. E nella realtà di Roma, dove i processi di inserimento ed integrazione sociale sono molto complessi, si evidenziano con maggior frequenza fenomeni di impoverimento del tessuto relazionale che incidono in modo significativo sul benessere psicofisico e sulla qualità della vita». Don Andrea Manto, direttore dell’Ufficio per la pastorale sanitaria del Vicariato, spiega la necessità di tenere allora accesi i riflettori su una questione tanto complessa e tanto ignorata: «Subito dopo la promulgazione della legge Basaglia, si sollevò un grande entusiasmo. Si chiudevano i manicomi e si parlava di integrazione, di accoglienza. Oggi molti di quegli entusiasmi non hanno avuto seguito. È subentrata quella che Papa Francesco chiama “globalizzazione dell’indifferenza” e “cultura dello scarto”, per cui se non produci vieni isolato». E di questo isolamento a farsi carico sono quasi sempre le famiglie lasciate a lottare in solitudine.

«Anche se gli altri sono fuggiti – racconta con determinazione Manto -, noi invece ci siamo, animati dall’idea che la fraternità sia un valore, disponibili ad accrescere il servizio che offriamo a coloro che sono in difficoltà e a chiedere anche agli altri attori di unirsi e fare rete». Soprattutto, insiste Manto, «quello dell’educazione alla socialità, e dunque della prevenzione, è un terreno fecondo su cui lavorare. Occorre cioè iniettare valori positivi nel tessuto sociale perché può essere vero, come lamentano da più parti, che manchino i fondi necessari ma resto convinto che se si afferma un valore poi arrivano anche le risorse, magari dallo Stato ma anche da parte di privati generosi che sposano la causa». Ecco dunque la chiave: creare la cultura dell’accoglienza. «Non lasciamoci ammutolire – sintetizza Manto – dal fatto che non ci sono soldi».

Al convegno, a cui hanno preso parte l’assessore alle Politiche sociali Francesca Danese, tantissime associazioni di genitori di malati psichici e altrettanti operatori sanitari, è intervenuto anche Paolo Girardi, psichiatra della Sapienza, tra i fondatori dell’Associazione italiana lotta allo stigma (Ailas). Marchio, come lo sono le stigmate del Cristo, clinicamente lo stigma è un «segno distintivo in riferimento alla disapprovazione sociale di alcune caratteristiche personali», siano esse il disagio mentale, il colore della pelle, una differente religione. Insomma quelle che, con bruttezza di linguaggio, fanno si che si additi un uomo o una donna come “diversi”.

«Lo stigma è la dimostrazione – spiega Girardi – di quanto esso sia non già un fattore di aggravamento della malattia ma determinante della stessa». L’augurio è che si possa davvero “fare sistema” e portare all’attenzione delle istituzioni tutte quelle vite fantasama – migranti, disabili, senza fissa dimora – che affollano le strade di periferia della città o le stazioni del centro e che “non fanno numero” non avendo nemmeno accesso ai servizi pubblici di salute mentale. «Non è impossibile – per dirla con le parole di Alberto Siracusano, docente di Psichiatria all’Università Tor Vergata di Roma – ma almeno si può rendere l’obiettivo meno improbabile».

14 maggio 2015