Le leggendarie tombe di Mawangdui

Fino al 16 febbraio, a Palazzo Venezia esposti i reperti di tre tombe cinesi risalenti al II secolo prima di Cristo. Nella mostra, ripercorso il tema del viaggio dell’anima alla ricerca dell’immortalità

Dopo l’esposizione “La Cina arcaica” Palazzo Venezia rinnova le relazioni culturali del nostro paese e la Cina con “Le leggendarie tombe di Mawangdui”. Si tratta di 3 tombe risalenti al II sec. a.C., rinvenute nel 1971 durante la costruzione del rifugio sotterraneo di un ospedale. Per comprendere il frangente storico in cui gli occupanti delle tombe, il marchese di Dai, la moglie e un figlio trentenne, sono vissuti, occorre far riferimento agli anni in cui l’impero romano regnava incontrastato sull’ Occidente, mentre in Oriente sorgeva il potente impero degli Han occidentali (220 a.C. -25 d.C.). Quando divenne imperatore Li Bang, fondatore della stirpe, il territorio fu diviso in stati feudali, tra cui quello di Changha, esistito per 239 anni. Stato di cui fu primo ministro Li Cang che, per meriti militari e di governo, fu insignito del titolo di marchese. L’istituzione di un Marchesato si era resa necessaria al fine di sorvegliare e difendere un impero così vasto, la cui capitale era situata 500 chilometri più a nord. Attraverso queste sepolture e il di esso corredo funerario, ripercorso è il tema del viaggio dell’anima, attraverso le misteriose vie dell’universo, alla ricerca dell’immortalità. Viaggio che si dispiega tra conoscenze cosmogoniche del tempo, mitologia, animali fantastici e ritualismi, nei quali la ricchezza e profondità dei contenuti trova degna accoglienza in tecniche artistiche eleganti e raffinate.

La leggendarietà delle tombe nasce infatti dalla finezza delle esecuzioni, che denota il rango degli occupanti, e dal numero sorprendente di reperti rinvenuti (più di 3000), tra cui utensili di cucina di uso quotidiano, statuette in legno per sostituire servitori e musicisti, armi, etc. Più di 700 ad esempio sono i reperti in lacca naturale, differenti per tipologia e dimensioni; materiale di complessa lavorazione e elevato costo. Inoltre arricchivano le tombe vesti in seta – i cinesi erano stati definiti da Plinio nella sua Naturalis Historia ‘popolo serico’ che consentiva alle matrone d’indossare vesti trasparenti- che denotano la ricercatezza degli abiti dei marchesi e la perfezione del confezionamento. Così come tessuti damascati ricamati riflettono nei motivi decorativi auspìci di prosperità e longevità (nei fiori di corniolo o nuvole) e romantici carteggi (nelle rondini migratrici). In seta anche manoscritti – della cui esistenza se ne aveva notizia, ma non testimonianza diretta-, che trattano di politica, filosofia, medicina etc, che con testi riportati su tavolette lignee e listelli di bambù (di cui esistevano già esemplari) costituiscono una sorta di vera e propria biblioteca sotterranea. Tutti esempi di questo periodo storico della Cina particolarmente florido in vari campi del sapere e delle arti.

Ma ad avere un’eco mediatica mondiale è stato il ritrovamento del corpo della marchesa, a distanza di più di 2000 anni, integro, con tessuti ancora molli e articolazioni parzialmente mobili. È un miracolo di conservazione la cui scoperta, una delle più importanti della Cina del XX secolo, per risonanza è stata paragonata a quella della tomba di Tutankhamon in Egitto. Scoperta documentata da video in lingua cinese con sottotitoli in italiano e foto, che spiegano le ragioni di quest’eccezionale conservazione. Per la complessità dei temi e concetti rappresentati,invece, il pezzo più importante è il drappo funerario della marchesa, una lunga veste a forma di T, con le maniche larghe e corte, adagiato sul coperchio esterno del sarcofago. Forse simbolicamente raffigurava la veste indossata dall’anima nel volare verso il cielo. Il drappo, in cui predomina il rosso (colore della vitalità) è come se fosse diviso in tre parti: in alto il divenire dell’anima, in basso il cammino percorso e i pericoli evitati, al centro del dipinto una dama (la capigliatura reca una perla bianca, ornamento del capo delle donne nobili).

La dama, la marchesa, pur appoggiandosi a un bastone (probabile simbolo della risurrezione del corpo perché allude al viaggio da percorrere e al ritorno al legno grezzo), si solleva da terra. È accompagnata da tre figure che le somigliano, cioè le sue anime (la mentale, spirituale ed emotiva). Avanza verso il nord ovest dove il sole tramonta, verso il passaggio tra cielo e terra, e non più verso il sud, verso la vitalità, cioè il sole. È posta sopra il disco di giada, simbolo dell’unione dello yin e yang.Mentre lo yin designava il versante in ombra di una collina, quindi simboleggiava la notte, la terra, il buio e la luna, lo yang il versante soleggiato, cioè la luce, il giorno etc.: due segni opposti quindi, ma complementari, la cui mancata armonia procura all’uomo malattie e morte. Nonostante le difficoltà d’accostarsi a pratiche di rappresentazione figurativa, simbolica e decorativa differenti dalle occidentali e di superare le aspettative d’ ‘esotismo’, la visita alla mostra, talvolta un po’ ripetitiva nei pannelli, senza i quali tuttavia difficile è orientarsi, è comunque interessante.

Palazzo Venezia, Via del Plebiscito, 118. Fino al 16/02/ 2015. Orari: dal martedì alla domenica dalle 10 alle 19. Biglietto:ingresso a Palazzo Venezia a 4 euro; ridotto la metà, 2 euro.

12 settembre 2014