Covid e disabilità, Aipd rivendica un protocollo

L’associazione chiede la presenza di un caregiver in caso di ricovero. E ricorda Valeria Scalisi, 32 anni, con sindrome di Down, morta sola in ospedale

Senza il caregiver familiare accanto, la persona con disabilità in ospedale rischia di non ricevere un’assistenza adeguata. Occorre quindi un «protocollo, che preveda la presenza di un caregiver accanto alla persona con disabilità grave ricoverata»: alle numerose voci che chiedono con forza questa misura, si unisce ora quella di Tiziana Grilli, presidente dell’Associazione italiana persone Down, dopo il caso di Valeria Scalisi, la donna con sindrome di Down, morta per Covid al Policlinico di Catania, lontana dai familiari che sempre si erano presi cura di lei. «Siamo consapevoli dello sforzo e della dedizione che i sanitari impiegano per tutti i pazienti, rischiando loro stessi il contagio – ammette Grilli -. Ai percorsi di cura occorre però aggiungere ora questo protocollo».

Aipd chiede dunque a gran voce la soluzione a questo problema, «che riguarda le persone con sindrome di Down e tutte quelle con disabilità intellettiva, che non si autodeterminano e non hanno capacità sempre di esprimere i loro bisogni. Essere ricoverati in un reparto ospedaliero per la necessità di cure, significa per tutti cambiare completamente il contesto di vita abituale – spiega Grilli – ma pensate cosa possa accadere alle persone che non hanno gli strumenti per decodificare e sopportare le nuove condizioni e che spesso non hanno una comunicazione verbale efficace. Occorre quindi che si possa prevedere la presenza, accanto alla persona con disabilità, di un caregiver che volontariamente svolga questo compito e possa mediare la lettura del nuovo contesto. Questo permetterebbe di facilitare l’accettazione della sofferenza e delle cure ma anche di facilitare il lavoro degli operatori sanitari, che devono comprendere a volte una forma di comunicazione a loro completamente sconosciuta».

Le buone prassi esistono e l’associazione ne è ben consapevole: «Sappiamo che la presenza di un parente è stata permessa, almeno nei reparti di degenza se non in terapia intensiva, in diverse analoghe situazioni, peraltro determinando una condizione di miglioramento del benessere emotivo del paziente con disabilità: e questo può avere una ricaduta positiva anche sul percorso terapeutico – spiega Grilli -. Non chiediamo l’impossibile quindi ma di mettere a sistema, rendere esecutiva, una pratica umanizzante e indispensabile perché le persone con disabilità abbiano sì le stesse opportunità di cura ma con sostegni adeguati a realizzare l’efficacia necessaria alla sopportazione della sofferenza e alla guarigione, dove possibile».

Aipd fa riferimento poi a un altro tema particolarmente caldo, quello dei vaccini. E lo fa rammentando quanto emerso da uno studio della Società scientifica internazionale T21-RS, pubblicato come PrePrint del National Institute of Health, in base a cui le persone con sindrome di Down, dopo i 40 anni, sono più vulnerabili alle complicanze del contagio da Covid-19, con decessi fino a tre volte più frequenti rispetto alla popolazione di controllo senza sindrome di pari età. «Per questo, dopo questa età, è considerata una popolazione ad alto rischio e per cui si raccomanda peraltro fortemente la vaccinazione per tutti, appena possibile – aggiunge Grilli -. La pandemia ha messo sotto i riflettori, e non creato, il bisogno di sostegni individuali e tipizzati, a volte anche straordinari, di cui necessitano gli interventi sanitari per le persone con disabilità grave in ogni contesto di vita considerato, soprattutto se ospedaliero: ed è questo che chiediamo alle istituzioni, a maggior ragione quando c’è in gioco la sofferenza per una malattia, a cui si aggiunge la sofferenza dell’anima, che per alcuni potrebbe essere impossibile sopportare», conclude Grilli. (Chiara Ludovisi)

16 dicembre 2020