Franz Di Cioccio racconta “PFM canta De André – Anniversary”

Dopo lo stop imposto dalle norme di contenimento del coronavirus, la storica band torna in concerto il 9 settembre alla Cavea dell’Auditorium Parco della Musica

«La nostra tournée è stata il primo esempio di collaborazione tra due modi completamente diversi di concepire e eseguire le canzoni. Un’esperienza irripetibile perché PFM non era un’accolita di ottimi musicisti riuniti per l’occasione ma un gruppo con una storia importante, che ha modificato il corso della musica italiana. Ecco, un giorno hanno preso tutto questo e l’hanno messo al mio servizio…». Con queste parole Fabrizio De André commentava l’esperienza condivisa tra il 1978 e il 1979, quando Faber, riconosciuto come un vero poeta, accetta la sfida lanciata da Franz Di Cioccio, storico leader della band emblema del rock progressive italiano, di fare un tour insieme riarrangiando i brani del cantautore genovese in chiave “prog”, dilatandoli e lasciando spazio agli strumenti: un trionfo, da cui nacque anche lo storico album “Fabrizio De André in concerto – Arrangiamenti Pfm”.

A oltre quarant’anni da quell’evento e 20 dalla morte di De André, la PFM si è cimentata in “PFM canta De André – Anniversary”, un tour commemorativo (organizzato da D&D concerti con il patrocinio morale della Fondazione Fabrizio De André), con moltissime e fortunate date tutte esaurite che ora, dopo lo stop imposto dalle disposizioni ministeriali, torna con alcune date, compresa una tappa a Roma il prossimo 9 settembre alla Cavea dell’Auditorium Parco della Musica. Per rinnovare l’abbraccio tra il rock e la poesia, alla scaletta originale saranno aggiunti anche brani tratti da “La buona Novella” e, sul palco, si riuniranno oltre alla line up ufficiale costituita da Franz Di Cioccio e Patrick Djivas – basso -, Lucio Fabbri – violino, 2ª tastiera, 2ª chitarra, voce -, Alessandro Scaglione – tastiere -, Roberto Gualdi – 2ª batteria -, Marco Sfogli – chitarra -, Alberto Bravin – tastiere aggiunte, voce – e, per l’occasione, Flavio Premoli (fondatore PFM) con l’inconfondibile magia delle sue tastiere e Michele Ascolese, storico chitarrista di Faber.

Con il suo mix tra potenza espressiva del rock, suoni progressive e musica classica, la PFM ha fatto la storia della musica italiana. Nata nel 1970 (discograficamente nel 1971), la band ha guadagnato anche rapidamente un posto di rilievo sulla scena internazionale che mantiene tutt’oggi. Nel 2017 PFM è stata premiata con la posizione n. 50 nella “Royal Rock Hall of Fame” tra i 100 artisti più importanti del mondo mentre nel 2018 ha ricevuto a Londra il prestigioso riconoscimento come “International Band of the year” ai Prog Music Awards UK. Nel 2019 ha partecipato – per la terza volta – alla “Cruise to the edge” (fino ad oggi unico artista italiano che ha partecipato all’evento), facendo tappa per una breve tournée in Gran Bretagna, per approdare poi alla prima parte del fortunatissimo tour “PFM canta De André anniversary”. Sempre nel 2019 ha ricevuto anche diversi premi e riconoscimenti tra cui il Premio nazionale Franco Enriquez, il Premio Miglior Tour (Rock targato Italia), il Premio Pierangelo Bertoli “Itali d’Oro” e infine la rivista inglese “PROG UK” nomina Franz Di Cioccio tra le 100 icone della musica «che hanno cambiato il nostro mondo» (unico musicista del mondo latino). Abbiamo intervistato proprio Di Cioccio che oggi, con le sue 74 primavere, ha ancora tanti progetti a cui sta lavorando.

Che ci fate in studio di registrazione?
Stiamo facendo un disco nuovo, dovrebbe uscire alla fine di quest’anno, coronavirus permettendo. Un disco non si può fare per telefono, bisogna suonarlo, guardarsi negli occhi.

Quando è iniziato il lockdown eravate in pieno tour: che periodo è stato?
Venivamo da una tournée lunghissima, oltre 110 concerti tutti sold out, un grande successo con la scelta di portare De André così come doveva essere proposto. Volevamo anche un po’ riposarci, poi, all’inizio dell’anno, sono iniziate le prime preoccupazioni, poi abbiamo iniziato a cancellare le date, o a spostarle. Comunque nessuno ha richiesto i biglietti indietro, quindi dovremo recuperarle tutte e abbiamo ripreso da poco.

E com’è adesso riprendere i concerti e vedere il pubblico distanziato e con la mascherina?
Dal palco fa un effetto strano: nel concerto live, la cosa bella è vedere la felicità del pubblico, le reazioni, le emozioni, si instaura in qualche modo una comunicazione che adesso è diversa. Ormai c’è la metà delle persone che potrebbero esserci ma è bello comunque, più intimo.

Veniamo all’incontro con Faber, come nacque la vostra collaborazione che avvicinò due mondi musicali apparentemente molto lontani?
È stato un grande esperimento che ha cambiato la musica italiana. De André era una persona dotata di talento e gli piaceva curiosare. Io ho avuto l’idea e ci siamo trovati perfettamente in sintonia. L’idea vincente è stato proprio far incontrare due mondi diversi. In questo caso non è che uno più uno fa due ma uno più uno così diversi creano un tessuto completamente nuovo con cui fare musica. Il cantautore da solo con la chitarra aveva fatto la sua parte, noi invece venivamo da grandi tour all’estero e avevamo visto grandi collaborazioni e ci chiedevamo perché da noi non potesse accadere. In realtà non accadeva perché si credeva che ogni artista dovesse fare la sua vita, i gruppi facevano i gruppi e ognuno doveva continuare per la sua strada. Si pensava che il rock facesse rumore, che desse fastidio, invece abbiamo dimostrato che non sottrae niente alla poesia e abbiamo creato una nuova possibilità per le canzoni d’autore. Noi abbiamo fatto con la musica quello che lui ha fatto con la poesia.

Che ricordi ha di quel tour insieme?
Rivedendo il film che lo racconta (“Fabrizio De André e PFM. Il concerto ritrovato”, diretto da Walter Veltroni) mi ha fatto un effetto strano vedere Fabrizio davanti a me, perché sul palco ce lo avevo sempre vicino. Si vede che è felice, canta benissimo, in perfetta forma, sembra incredibile per lui, un tipo molto chiuso, invece rideva. Questa è la forza che ti dà la possibilità di avere davanti un pubblico diverso. E quello del rock è molto esigente. Per lui non era facile andare nei palazzetti, con due o tremila persone. Ma io gli dicevo sempre che se lui era “Coda di lupo”, come si definiva in una sua canzone, noi eravamo i suoi guerrieri. C’era anche questa goliardia tra noi. Ricordo una volta fuori dal Teatro Tenda di Firenze, dovevamo posare per Guido Harari, un noto fotografo, che ci aveva chiesto un bel posato, invece ci veniva da ridere e quella è la foto emblematica del tour.

Che tempi erano per la musica e per gli artisti? Oggi c’è il Covid ma in quegli anni agli eventi di massa c’era il pericolo del terrorismo.
Erano anni di contestazioni, la gente voleva la musica libera, voleva entrare gratis ai concerti. Venire ai concerti a contestare era un modo di farsi sentire e notare, non è che ce l’avessero con noi o con Fabrizio. Ma lui era sempre dalla loro parte. A Roma ci fu una contestazione importante e lui li ha fatti parlare durante il concerto. Era una persona tollerante e democratica.

In questi giorni “Impressioni di settembre”, uno dei brani più conosciuti del repertorio della PFM, è un hashtag molto popolare sui social. Che effetto vi fa?
Certo non era quella la nostra intenzione! Questo brano è molto particolare perché ha un testo formidabile (scritto da Mogol) con questi piccoli flash bucolici, in cui ognuno può ritrovare la descrizione di questo mese, con la natura che ti sorprende con la sua capacità di raccontarti come sta andando la vita, e poi ha un suono pazzesco, che ti prende dentro, ti sconvolge. Non è suono vero, definito, una chitarra, una tromba, un violoncello, ma un suono sintetico, che ti dà una vibrazione e che a quel tempo non era ancora conosciuto, ottenuto grazie al Moog, un sintetizzatore che con un tasto che si schiaccia produce un suono unico, fatto non di nota per nota ma di un’oscillazione prolungata. All’epoca, quando suonava nei juke box, che hanno dei bassi molto forti, tremava tutto il bar e la gente rimaneva colpita.

Potere della musica.
Ma c’è anche un altro nostro brano, “Suonare suonare” del 1980, molto attuale, che dice: “Starsene a casa, a che fare? Quello che ciondola/ Ma non gli va di restare/ Leggo un giornale, sempre uguale”, adatto alla quarantena, tant’è che è stato inserito in un documentario sul Covid.

Oggi, secondo lei, c’è abbastanza sperimentazione nella musica italiana?
La sperimentazione bisogna averla dentro, non è che ci sono una serie di ingredienti: deve essere la ragione della tua vita. Bisogna avere la voglia di cambiare. Per noi il disco più bello è sempre quello che dobbiamo ancora fare. Oggi ci si accontenta, quando si ha successo si tende a replicare le cose fatte, manca il coraggio di rischiare. Ma non esiste una sola strada giusta, tutte le strade sono giuste se sai percorrerle.

4 settembre 2020