Tirare su la vita, quello è il vero atto d’amore

Pensieri dalla montagna: la fatica dell’educare, l’emergenza della scuola, la paura che abita il mondo. Poi una giovane voce di risurrezione

Questa mattina, ero in montagna: sono in vacanza con la mia famiglia, è un tempo speciale, è un tempo bello. Camminavo verso il rifugio, ero disponibile ai buoni pensieri, quelli dell’agio di lasciarsi per un po’ tutto alle spalle, ma io guardavo in alto e i mei figli che erano con me guardavano in basso. Si passavano il telefono, ridevano, poi sbuffavano. La montagna per loro era come la collina dove abito, per un momento mi sono sentito quasi offeso: «Ma come, non la vedete tutta questa bellezza?». Ma parlavano tra loro, erano felici tra loro e con gli sguardi erano tra loro: era quella per loro la bellezza, era quella per loro la vetta.

Camminavo in montagna: ho sentito la fatica nobile di salire. Mi sono chiesto «ma perché non è nobile durante i nostri inverni, durante i nostri lunedì mattina quella fatica?». Ho pensato all’anno che è passato, alla scuola, alla mia famiglia. Tirarli su, questi ragazzi e queste ragazze, tirarli su, questi figli e queste figlie, non è affare da poco, spezza il fiato, spezza i fianchi. «Quanto lo sa il mondo?» mi sono chiesto. «Ma poi che importa, cosa cambierebbe», mi sono detto. Che l’albero quando cresce non fa rumore, giorno per giorno non fa rumore; fallire, quello sì, crea dolore. Ci sono lacrime che nessuno vede, ci sono mattine che nessuno ricorda. Ma tirare su la vita: quello è il vero atto d’amore.

giovani ragazzi adolescenti escursione montagna vacanzaSul sentiero ho incontrato un gruppo di ragazzi e di ragazze: saranno stati una trentina. Mio figlio mi ha detto: «Faranno al massimo il secondo, il terzo superiore». Avanzavano compatti, nessuno rimaneva indietro. A quindici, sedici anni, nessuno di loro lasciava l’altro indietro. Ho pensato ai miei ragazzi e alle mie ragazze, agli occhi di tutti quelli che ho lasciato indietro, io, non altri: quest’anno appena passato. Ho pensato alle famiglie, a quel ragazzo che non ce la fa, alla ragazza che loro dicono che non capisce: al sedersi con le mani in mano, al non sapere dove mettere le mani, al semplice gesto che mi è dato di tendere le mani.

È la mattina di un’estate particolare. Di tutte le emergenze, quella della scuola sembra essere la più difficile da gestire. Mi colpisce la troppa rabbia, l’istinto immediato di dovere accusare. Ormai da tempo mi dico che è normale, c’è una paura nascosta che abita il mondo, una paura che alla fine diventa fragore: che se si crolla dove si cresce il futuro allora davvero c’è da tremare. Lo sappiamo tutti: eppure sento che, tutti, dovremmo sforzarci perché il tremore non diventi rancore.

A un certo punto la fatica mi è sembrata farmi arrestare. Siamo rientrati, ci siamo rifocillati. Dopo pranzo ho sentito il telefono suonare. Era Francesca, da tanto, troppo tempo non ci parlavo. Anni fa ho condiviso con lei un cammino per un periodo lungo, dentro una comunità per ragazzi che avevano perso la strada. Ho sentito la sua voce: mi è sembrata rinata. La sua terapeuta le ha detto che è pronta per provare a ricostruire, deve cercare una casa in affitto, mi ha chiesto se posso aiutarla. La sua voce, una risurrezione. Continuiamo a camminare.

22 luglio 2020