Rebibbia vive la grande attesa per Francesco

Giovedì 2 aprile la Messa “in Coena Domini”, nella quale il Papa laverà i piedi a 12 detenuti. Le voci del cappellano don Spriano e dei volontari

Giovedì 2 aprile la Messa “in Coena Domini”, nella quale il Papa laverà i piedi a 12 detenuti. Le voci del cappellano don Spriano e dei volontari

«I detenuti sono un pezzo del suo cuore. Quasi tutte le domeniche telefona al carcere di Buenos Aires per parlare con qualcuno di loro. E ogni volta, ce l’ha detto incontrando i cappellani, quando finisce pensa: “Le debolezze che abbiamo sono le stesse, perché lui è caduto e non sono caduto io?”. Credo che il Papa venendo da noi voglia dire che la Chiesa davvero non emargina nessuno». Don Sandro Spriano, da 25 anni cappellano al Nuovo Complesso di Rebibbia e da novembre anche alla sezione femminile, spera che la visita del Papa in carcere serva a «dare un momento di gioia ai detenuti», ma «anche alle nostre comunità parrocchiali, per capire che queste persone non vanno mai “buttate via”». Nel Giovedì Santo Francesco non solo visiterà a Rebibbia qualche stanza di detenzione, ma nel corso della Messa “in Coena Domini” laverà i piedi a 12 detenuti, di cui sei donne, anche di altre fedi religiose. In chiesa – la cappella dedicata al Padre Nostro – ci saranno esclusivamente detenuti, 150 uomini e altrettante donne. Tutti gli altri lo aspetteranno nello spazio antistante, dove sarà allestito un maxischermo.

È la prima volta che un Papa incontra le detenute, «anche mamme con bambini», che eccezionalmente per l’occasione raggiungeranno il complesso in pullman. Anche in carcere, spiega don Sandro, «c’è una Chiesa viva», un «popolo» che vive un’attesa carica di felicità per l’arrivo del suo pastore. E che per questa visita si è preparato, con due Via Crucis: una, venerdì 20 marzo, alla Casa circondariale femminile, presieduta dal cardinale vicario Agostino Vallini, e l’altra, venerdì 27, al complesso maschile, guidata dal direttore della Caritas diocesana monsignor Enrico Feroci. Momenti che hanno coinvolto profondamente i detenuti in vista di «un appuntamento che sentono li riguarda direttamente», spiega Adelaide Martinelli, che col carcere ha festeggiato le «nozze d’oro». Da 50 anni collabora con l’associazione Volontari in Carcere (Vic), realtà legata alla Caritas, dedicandosi alle detenute:  «Le donne vivono una sofferenza in più: quella della separazione dai figli. E spesso vengono abbandonate dal proprio uomo».

Alla Via Crucis con il cardinale vicario erano tante le donne partecipanti, «anche non credenti», però «c’erano ugualmente. Quella della croce è una storia di dolore e speranza, che tutti in carcere sentono vicina». Per questo la visita del Papa è un importante segnale di attenzione: «I detenuti sanno di essere i cattivi e di essere considerati cattivi, sanno che il mondo non li vuole», dice Daniela De Robert, volontaria dall’84 e presidente del Vic. Anche lei, come don Sandro e Adelaide, richiama le parole del Papa ai cappellani. «Siamo tutti capaci del male, per questo noi volontari non chiediamo il reato alle persone con cui parliamo: non incontriamo il reato che cammina. Noi trattiamo con la persona, in una prospettiva di futuro. Non c’è lezione, solo ascolto».

L’ascolto è uno dei due pilastri del Vic, che con oltre 100 volontari è presente in dieci centri di ascolto aperti a Rebibbia (dove ci sono tre strutture maschili e una femminile, la più grande d’Europa, e in più un reparto protetto al Pertini, dove alle regole del carcere si sommano quelle dell’ospedale). L’altro pilastro è l’accompagnamento. «Li portiamo in permesso premio, molti non hanno una casa dove andare, o non ci possono tornare per la vicinanza con pregiudicati, la residenza in quartieri a rischio, o affitti non regolari». Per questo il Vic ha aperto una casa, che accoglie i detenuti con le loro famiglie in occasione dei permessi. «Il carcere – afferma De Robert – disabitua alla vita. Escono e gira la testa, non sanno più attraversare la strada. La cosa più difficile è riabituarli a decidere: il carcere ti porta solo a chiedere, perché le decisioni le prendono gli altri, il direttore, il giudice, l’educatore».

Dietro le sbarre c’è bisogno di tutto. Sempre più il disagio sociale vive in cella, vi entra più facilmente e con maggiore difficoltà esce. Per i più fragili socialmente «il carcere è un imbuto». A livello materiale, «la povertà è grande», e ogni settimana il Vic fornisce un centinaio di pacchi vestiario, che esaudiscono richieste specifiche da parte dei detenuti: mutande, giacche, pantaloni. «Un giorno – ricorda Daniela – incontrai Pasquale. Mi disse: “Sai, io i denti me li lavo con il dito perché ce l’ho e con il Cif perché lo trovo in bagno”. Quindi portiamo spazzolini, carta igienica, assorbenti».  La povertà del carcere veste anche i panni di una solitudine profondissima. I rapporti con le  famiglie «a  volte sono spezzati dai fatti, a volte erano difficili pure prima». I volontari fanno il possibile: «Non salviamo nessuno, a volte possiamo dare una mano e a volte diamo una mano senza saperlo».

Daniela rammenta la prima persona che incontrò in carcere: «Jugoslavo, quando uscì di galera il suo Paese non esisteva più. Qualche settimana fa ha avuto il permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Ora ha una piccola impresa». C’è un turco, «uscito con l’indulto, che ogni Natale chiama per fare gli auguri». C’era un senegalese che credeva la sua famiglia non lo volesse più, e invece era solo un problema di lingue e fusi orari. Chi sa che c’è stato un terremoto in Turchia ma non se la sua famiglia è ancora viva. Chi ha il figlio di 5 anni che si deve operare di appendicite e saprà come è andata dopo una settimana, al momento del colloquio. C’è la vita che scorre, altrove. E c’era Marcello, poi morto di overdose, che un giorno correva stringendo una cartolina in mano: «Daniela, con questa ci vado avanti tre mesi! C’è qualcuno, là fuori, che mi pensa».

31 marzo 2015