Il futuro? Un mondo diverso, con tante domande in attesa

Dovremo parlare di libertà negate e bene comune, di paure e difficoltà, del lavoro e delle bollette, della parola di chi ha abbracciato un crocifisso

Durerà ancora ma poi una mattina ci troveremo reduci in un mondo diverso, tutti saremo cambiati e il primo passo sarà tracciare con un dito i lineamenti dell’altro quando ci rincontreremo. Probabilmente ci faremo carico di una qualche forma comune di elaborazione del lutto, della morte che è stata, delle lacrime che sono entrate in migliaia di case, vicine, lontane, dei numeri indicibili: ci vorrà tempo o tutto il tempo sarà sottratto dalla furia di riprendere il passo di un mondo che s’è mostrato capace di abbandonarci.

Ma oggi siamo ancora qui, e l’ennesimo pomeriggio passato a guardare fuori dalla finestra mi fa pensare alle domande che ci aspetteranno, quando il portone potrebbe riaprirsi, quando le strade inizieranno piano piano a fare rumore, quando arriverà (pensiero cullato) il giorno in cui anche io mi troverò difronte ai miei ragazzi, alla carne e alle ossa, alla loro e alla mia.  Dovremo metterle in fila quelle domande, dovremo provarci perché le nostre domande saranno le domande di ognuno e anche il semplice riprendere a fare scuola non sarà possibile, se ne eviteremo il peso, la pretesa. E dovremo parlare, sì, dovremo parlare.

Dovremo parlare, dei corpi e della distanza. Della negazione dell’altro e dei simulacri digitali che per giorni ci hanno comunque tenuti attaccati gli uni agli altri. Di questo istinto primordiale e brutale di volere essere là fuori, di potere pestare con i piedi il selciato, del non accettare lo stare da soli, del non essere soli, del nervosismo, dell’angoscia. Della libertà negata e del bene comune, dell’equilibrio sottile tra me e l’altro, del sentirsi insieme, del non essere annullati. Della democrazia e del mondo, della storia che è cambiata, del singolo e del popolo, dell’interesse del mercato, del dono e della giustizia.

Dovremo parlare, parlare del lavoro e delle bollette. Del pacco di pasta che a un certo punto è mancato e dello sguardo a cena di un padre che dice «aspettiamo per la spesa». Dell’impossibilità di ricominciare e del coraggio di iniziare. Di un futuro che anche per loro, i nostri ragazzi, tra la spunta di una chat e l’episodio di una terza stagione da finire, si affaccerà ostile, brutale, perché ora sarà dura, perché il domani farà anche più paura. Del futuro, sì del futuro che poggerà sul respiro dei vivi, sul ricordo dei morti, su questo essersi riconosciuti impotenti.

Perché in qualche modo dovremo parlarne, della morte e del dolore. Della minaccia dell’altro e del non potere toccare più l’altro. Dei confini demoliti dalla paura, di quelli un tempo innalzati dalla menzogna contro il povero e della favola brutta di uno spazio che s’è visto che non esisteva. Della vecchiaia e della giovinezza, della natura e del vero, di chi ha deciso di imprecare, di chi ha voluto pregare. Della debolezza di un crocifisso e di una piazza vuota, della parola dell’uomo e della dignità che l’ha abbracciato: per mostrarlo al mondo.

Sì, dovremo parlare, parlare del tempo che ci è stato dato, di come l’abbiamo pensato e di come l’avevamo sognato. Di questi giorni e di quando li racconteremo, perché un giorno parleremo, parleremo di nuovo e forse quel giorno, guardandoci finalmente negli occhi, noi tutti capiremo.

1° aprile 2020