La paura, il tempo dell’attesa, il “tremare” e la vita da benedire
In pochi giorni la vita è cambiata. Ora si è segregati in casa. La scuola a distanza, la paura della gente, la voglia di raccontare e il bisogno del silenzio
Ma cosa dovrei scrivere, di cosa dovrei parlare. In dieci giorni il mondo è cambiato, la vita è cambiata. Si sono chiuse le case, chiuse sul nulla e su tutto, sui social di terra e di mare, sui generi di conforto, sulle serie tv e le stagioni da ingrassare, sulle chitarre e i tamburelli per stare sui balconi, sulle mascherine e i guanti per osare il mondo, il mondo, sì il mondo di colpo diventato inferno. Ma ci siamo ritrovati segregati in casa, di fatto privati di tutto, della strada e della mattina, della pelle e dell’abbraccio, dello zaino e della giacca, del rumore e della vita. Sì, della vita.
Faccio l’insegnante, è il mio lavoro, la scuola è il mio posto bello nel mondo. In questi giorni s’è detto tutto: la rete e la didattica, l’insegnante preparato, quello meno e quello no. Il voto e il ragazzo, il tablet, la connessione. I diritti e gli occhi stanchi, le ore, siamo bravi, siamo somari. Un po’ di silenzio. È mancata la vita, hanno chiuso la scuola, una campana che è sembrata suonare a morto, c’ha atterrito tutti. E io proprio non lo so di cosa dovrei scrivere, di cosa dovrei parlare.
Oggi, di fronte al pc, ho fatto lezione nella mia prima, c’eravamo lasciati all’inizio dell’Odissea. Abbiamo continuato. Zeus che lamenta ai numi: «Quante colpe danno i mortali agli dei», i ragazzi che mi dicono «facciamo bene a dargli le colpe». Oggi ho fatto lezione nella mia quarta, prima della chiusura avevamo iniziato a leggere i Canti di Leopardi. Abbiamo continuato. Sì, «dolce e chiara è la notte e senza vento», ma anche io mi affaccio a salutare «l’antica natura onnipossente / che ci fece all’affanno». Ci vediamo domani ragazzi, collegati alla stessa ora, continueremo a parlare.
Sono uscito per fare la spesa, bardato come il cavaliere inesistente. Ho visto la gente che si spostava sull’altro lato della strada, e forse va bene. L’ho vista evitare il mio sguardo, chinare gli occhi impauriti, negare il saluto: e no, non va bene. Ho comprato il pane, l’olio e la pasta, ho pensato alla quaresima e di fronte a una scatola di fagioli ho detto una preghiera. In fila distanti l’uno dall’altra ci guardavamo e aspettavamo. Sono arrivato di fronte alla cassiera, ho visto la fatica e il pane che mi ha permesso di mangiare. Mi sono detto: domattina ai ragazzi non dovrei parlare di Odisseo, di Zeus, di Omero. Dovrei dimenticare Leopardi. Della cassiera di Ponte San Giovanni, dei suoi occhi, delle sue mani dentro i guanti di lattice che mi hanno imbustato il pane. Di questo dovrei parlare.
Ho portato mia moglie all’ospedale. Deve nascere mia figlia, il tracciato andato a vuoto e tre figli soli a casa, l’infermiera e il suo saluto. Questa voglia di raccontare, il bisogno del silenzio, i morti lassù a Bergamo e nel Lodigiano, e mio padre e mia madre laggiù, lontano, ad aspettare. Oggi c’è il sole, sono tornato e mio figlio in cucina sorrideva alla sua maestra. Ho un’altra lezione da preparare, scrivo agli amici che vorrei abbracciare. La paura, la morte, questo tempo che ci è dato da aspettare. Queste mani, questo umanissimo tremare, questa vita da benedire. Primavera.
18 marzo 2020