Hospice Villa Speranza: cure e accompagnamento, per dare dignità alla vita

La struttura della Cattolica si prepara a ricevere la visita del cardinale Vallini. Il direttore La Commare: «Nessuno chiede di morire se coccolato e accudito»

La struttura legata alla Cattolica si prepara a ricevere la visita del cardinale Vallini. Il direttore La Commare: «Nessuno chiede di morire se coccolato e accudito»

Quando don Carlo Abbate celebra la Messa nella cappella di Villa Speranza, in via della Pineta Sacchetti, raramente i degenti possono essere presenti. È più probabile che partecipino i loro parenti. Villa Speranza è un hospice per malati terminali e i suoi ospiti difficilmente possono alzarsi dal letto. «È più frequente – racconta don Abbate, da otto anni assistente spirituale di Villa Speranza – che portiamo l’Eucaristia o l’unzione degli infermi nelle stanze dell’hospice. Vengo la mattina e quotidianamente visito i trenta posti letto. È come se celebrassi trenta Messe al giorno perché ogni letto qui è un altare e ogni stanza un Vangelo».

L’Hospice Villa Speranza – una struttura della Società di chirurgia addominale italiana, che appartiene per il 99% all’Università Cattolica del Sacro Cuore e per l’1% alla Fondazione Toniolo – riceverà sabato 21 marzo alle ore 10 la visita del cardinale vicario Agostino Vallini. Il porporato incontrerà i malati e il personale dell’hospice, costruito nel 1951 e guidato dal direttore sanitario Francesco La Commare. «La filosofia dell’hospice – spiega il dirigente – è quella di dare dignità alla vita, diminuendo i sintomi che impediscono un normale rapporto con i cari e mantenendo vivi gli affetti con la famiglia. L’ideale sarebbe trascorrere con i propri cari gli ultimi giorni della propria vita. Ma qui cerchiamo di togliere i sintomi tenendo sveglia e attiva la persona. I famigliari possono soggiornare, mangiare e dormire qui».

L’hospice Villa Speranza dispone di trenta posti di residenza e di 120 posti di assistenza a domicilio. La sopravvivenza media degli assistiti è di 20-25 giorni. Qui arrivano una media di 400 pazienti all’anno, il 45% dei quali proveniente dal Policlinico Agostino Gemelli. Sono malati oncologici, ma anche malati terminali cardiopatici o malati di Alzheimer allo stato finale. «Qui non si cura – aggiunge don Abbate -: qui ci si prende cura».

«Qui facciamo esperienza – prosegue La Commare – che nessuno chiede di morire se viene coccolato e accudito nei suoi ultimi giorni. Il paziente chiede di morire quando si sente trascurato e ha dei sintomi che non vengono curati. L’uomo è sempre attaccato alla vita. Basterebbe prendersi cura di queste persone per risolvere il problema dell’eutanasia. Ma la cura palliativa non deve essere accanimento terapeutico. Noi medici non dobbiamo né accorciare la vita né allungarla. Qui facciamo cure palliative per diminuire i sintomi dolorosi. E il dolore non è solo fisico. Se hai un peso nell’anima nessuna morfina può togliertelo».

È proprio qui, dai dolori dell’anima, che inizia la missione di don Abbate. «Affronto le domande di senso che emergono nella persona – racconta il sacerdote – senza la pretesa di avere sempre una risposta pronta. Qui sperimento un incontro tra persone, nell’autenticità. Le frasi di circostanza non funzionano. Dobbiamo condividere con i pazienti una verità che loro stanno pian piano percependo: la loro morte. Assisto quotidianamente a un processo a Gesù da parte dei degenti, qualche volta molto giovani: “Dio mi ha punito”, “Sconto i peccati miei o della mia famiglia”, “Dio mi ha abbandonato”. È certo che se io non avessi una vita di preghiera, se non avessi una vita di comunione con gli altri sacerdoti della Pastorale sanitaria, non potrei lavorare qui». L’assistenza spirituale a Villa Speranza è ben lontana dal proselitismo. «La fede è una risorsa – dice don Abbate – ma se il degente non è un credente, può sempre rileggere la propria biografia, riempiendo gli spazi bui dove Cristo non è mai entrato. La persona qui viene sempre rispettata nelle sue convinzioni. Il mio compito non è convertire, io sono qui ad accompagnare. Abbiamo creato anche una rete assistenziale interculturale. Se un paziente islamico vuole parlare con un imam, siamo in grado di portarglielo».

A prima vista, “Villa Speranza” sembra un nome curioso per un hospice per malati terminali. Invece è il nome giusto. «Qui – conclude l’assistente spirituale – ho celebrato 5 matrimoni, 7 cresime, 2 prime comunioni e un battesimo di degenti. Questo è un luogo di vita. Qui anche il pregiudicato si sente amato, e questo lo riconcilia con se stesso e con Dio». Nella cappella dell’hospice i rami di un “albero della vita” reggono decine di messaggi di pazienti e famigliari. Non sfigurerebbe una celebre frase del filosofo Walter Benjamin: «È solo grazie ai senza speranza, che ci viene data la speranza».

18 marzo 2015