Pietro Bartolo: «Li chiamano immigrati o rifugiati. Sono persone»

Il "medico di Lampedusa", dal 2019 europarlamentare, ha raccontato alla Cittadella della carità i suoi 30 anni sull'isola. «Ci chiamano eroi ma se salvare una vita è diventato un atto eroico significa che viviamo in una società malata»

Non usa giri di parole quando racconta i suoi 30 anni a Lampedusa. Nessun termine edulcorato per descrivere i naufragi e i cadaveri trovati ammassati nelle stive dei barconi. Per rendere più incisiva la sua narrazione fa proiettare delle fotografie. «Li chiamano immigrati o rifugiati. Ci dicono che portano malattie, che sono terroristi, prostitute, che insidiano la sicurezza della nostra patria. Sono persone. Persone di cui ci dicono dobbiamo avere paura e quindi li tengono sulle navi per giorni». Così Pietro Bartolo, dal 1991 al 2019 responsabile delle prime visite ai migranti che sbarcano a Lampedusa. Ieri sera, giovedì 13 febbraio, il medico ha partecipato all’incontro organizzato nella Cittadella della carità dall’Area pace e mondialità della Caritas di Roma. Tra le prime file presente anche il vescovo Gianpiero Palmieri, delegato diocesano per la carità e la pastorale dei migranti.

Pietro Bartolo«Ci chiamano eroi ma se salvare una vita è diventato un atto eroico significa che viviamo in una società malata», ha rimarcato l’uomo dal 2019 europarlamentare e da 5 anni impegnato a raccontare «la verità di queste persone, la loro storia con i loro nomi, non numeri». Dare una «narrazione diversa da quella offerta dalla stampa» è diventata la sua missione. Non nomina mai esplicitamente Salvini ma è a lui che si riferisce quando afferma che oggi in Italia «salvare una vita è diventato reato. Vogliono chiudere i porti, emanano decreti che vanno contro ogni principio, sequestrano navi, cavalcano l’onda dell’invasione. Qui è in ballo il rispetto dei diritti umani. Non si tratta di buonismo».

Lampedusa è il «salvagente del Mediterraneo», un’isola che dal 1991 ha accolto milioni di persone fuggite dalla guerra, dalla fame, dai «lager libici di cui non parla mai nessuno, dove le donne valgono merce e sono sottoposte a torture ormonali». Eppure a Lampedusa nessuno ha mai pensato «di fare muri o di mettere del filo spinato». Il molo Favarolo è diventato la sua «prima casa». Lì ha prestato i primi soccorsi e visitato 350mila persone. Lì sono sbarcati anche tanti cadaveri. «Lui – dichiara sempre riferendosi a Salvini – dice che sui barconi arrivano “bambini preconfezionati”. Io i bambini nei sacchi neri me li sogno tutte le notti». Tra tanto orrore c’è spazio anche per storie a lieto fine, come quella di Kebrat, naufragata insieme a tanti migranti. Era stata dichiarata morta ma durante l’ispezione cadaverica Bartolo si è accorto che, seppur in maniera impercettibile, il cuore della donna batteva ancora. «Kebrat era viva – ripete più volte -, Kebrat era viva e oggi è una mamma che vive in Svezia».

Il suo lungo racconto ha suscitato «sentimenti di colpa, di stupore, di risveglio delle coscienze» e infonde «coraggio», ha detto infine don Benoni Ambarus, direttore della Caritas diocesana, per il quale «i media raccontano quello che vogliono ma i fatti sono questi e la prossima generazione potrebbe chiederci dove eravamo mentre tragedie simili accadevano sotto i nostri occhi». Mentre Bartolo affermava che Lampedusa è la «porta» dalla quale entrano i migranti e il mondo è «la casa accogliente», don Benoni ha pensato ai tanti giovani stranieri «affamati di vita» che dormono in strada e «al posto di una casa hanno trovato indifferenza». Ha infine invitato ad avere uno «sguardo umano su ogni persona», a «valutare bene le scelte politiche che vengono fatte» e a farsi «contagiare dalla banalità dell’eroismo dei piccoli gesti».

14 febbraio 2020