Quei sorrisi spesi a elemosinare un pezzo di dignità

L’incrocio di sguardi tra due mondi distanti: un giovane musicista questuante sulla metropolitana e un gruppo di adolescenti rumorose e vestite a festa

Ho trascorso con la mia famiglia alcuni giorni di vacanza durante le feste, in una bella città. Ho avuto modo di parlare con i miei figli, con mia moglie, mi sono guardato intorno, ho visto molti ragazzi e molte ragazze. Ho pensato che, come spesso mi è capitato, un incontro, un volto, una voce mi avrebbero suggerito cosa raccontare in questo pezzo di ripresa della rubrica #quindiciventi. Alla fine è stato uno sguardo, sì uno sguardo, quello che mi sono portato dietro, quello che intendo raccontare, uno sguardo che serberò a lungo perché mi ha sorpreso, mi ha scomodato, mi ha lasciato sospeso.

Ci trovavamo sulla metropolitana che porta verso il centro della città. A una fermata intermedia, come spesso capita, sono entrati nel vagone due questuanti: una donna e un ragazzo. La donna, appena entrata nel vagone, ha acceso una cassa portatile che dopo qualche istante ha esploso le note rotonde di un tormentone latino-americano. Il ragazzo, perché era lui la vera attrazione, ha iniziato ad accompagnare la base con un piccolo cembalo, ma con un senso del ritmo e con una continua variazione degli accenti da far convergere su di lui lo sguardo di tutti i presenti sul vagone.

Anche io l’ho guardato. Era piccolo di statura ma avrà avuto già sedici anni, la pelle segnata dalle imperfezioni dell’adolescenza e di un corpo che stava cambiando, una peluria sotto il naso quasi a volere millantare una specie di baffo, quasi per dire l’essere l’uomo che ancora non c’era. Ma soprattutto gli occhi: neri e fissi, assenti e distanti anni luce dal ritmo allegro che le mani freneticamente scandivano, occhi che pesavano come macigni su una bocca serrata che sembrava impossibile al riso, su braccia, gambe esili fasciate da jeans con gli strappi soliti che tutti i ragazzi portano, su un paio di Nike bianche ma sudice del nero fumoso delle stazioni e della città.

 Nel vagone c’era anche un gruppo di adolescenti rumorose e vestite a festa, euforiche nell’approssimarsi del centro, instancabili nel gioco degli sguardi e delle risate, con i pollici isterici e ticchettanti sugli schermi continuamente branditi degli smartphone. A un certo punto il ragazzo è passato proprio davanti a loro, ha incrociato impassibile i loro occhi, loro si sono protette negli ammiccamenti reciproci, cedendo giusto un istante di silenzio a quell’incontro sporadico e improvviso tra due mondi di natura così vicini ma che di fatto erano così brutalmente distanti.

Poi la musica ripetitiva e slabbrata dell’altoparlante si è fermata, proprio mentre il treno ha iniziato a rallentare in prossimità della fermata. Anche il ragazzo ha smesso di suonare e, dopo avere racimolato qualche spicciolo nel bicchierino di plastica, si è avvicinato con passo meccanico alla porta del vagone. Ci siamo trovati viso a viso, per un attimo ho incrociato il suo sguardo rimasto vitreo, fisso, la bocca serrata che sembrava impossibile al riso. Mi sono sentito penetrato da quegli occhi, dalla percezione fisica della violenza brutale del povero, dell’umiliazione di caricarsi di sguardi nel tempo dei sorrisi impacciati e incerti dell’adolescenza, spesi a elemosinare un pezzo di dignità. Il treno si è fermato, il ragazzo è sceso, l’ho rincorso con gli occhi. Mi ritrovo ora qui a scrivere queste parole, a due giorni dall’inizio della scuola, a sentire la spina nella carne dell’ingiustizia, a desiderare impotente che da martedì anche lui sia seduto dietro a un banco.

8 gennaio 2020