Cardinale Martini, Flick: «testimone di autentica giustizia»

Presso la sede di Civiltà Cattolica presentato il libro sugli anni della formazione del porporato. Padre Salvini: «ha contribuito all’aggiornamento della Chiesa»

Chi era Carlo Maria Martini prima di diventare cardinale e uomo di grande popolarità? Quanto degli anni di studi è rimasto e ha influenzato l’opera pastorale dell’arcivescovo di Milano? Da questi interrogativi si è sviluppato il dialogo a più voci su “Carlo Maria Martini. Formazione ed eredità”, che ha avuto luogo la sera di sabato 22 giugno nella sede della Civiltà Cattolica. L’occasione: la presentazione del libro “Martini. Gli anni della formazione (1927-1962)”, edito da Il Mulino e scritto da Alberto Guasco, docente di Storia contemporanea alla Link Campus University di Roma e specialista di Storia della Chiesa. Nella sede editoriale della rivista della Compagnia di Gesù, a via di Porta Pinciana, ad introdurre i lavori, alla presenza dell’autore, è stato padre Francesco Occhetta, gesuita e scrittore, che ha sottolineato come «nel ripercorrere le tappe della formazione del giovane Martini», Guasco tratteggi «il percorso comune a tutti i gesuiti: gli stessi studi, la stessa spiritualità, le stesse abitudini». Tuttavia, «invece di omologarci, tali similitudini ci rendono diversi, ma sempre uniti nell’appartenenza al corpo della Compagnia».

Padre Gianpaolo Salvini, direttore emerito della Civiltà Cattolica, ha espresso «sincero apprezzamento per questo studio sistematico e scientifico sulla formazione di Martini, un testo che mancava perché poche sono le fonti a disposizione, avendo lui stesso bruciato tutti i suoi diari giovanili nell’estate del 1944, prima di accedere al noviziato». Il gesuita ha poi osservato quanto «è facile cedere alla tentazione di voler ritrovare nei primi tempi della vita del futuro arcivescovo di Milano le tracce della sua vocazione», che proprio il porporato raccontò «di avere maturato lentamente, a partire dai 10 anni, entrando in Compagnia solo a 17, dopo la maturità». Salvini ha quindi commentato il percorso di studi di Martini: prima a Gallarate, dove apprese «il rigoroso Tomismo», poi a Chieri, dal 1949 al 1953, «dove affrontò la teologia in anni nei quali la libertà di ricerca biblica subisce attacchi pesantissimi da parte di più d’un ambiente curiale. Si trattò di un iter rigido e “vecchio stile” – ha detto -, eppure Martini ha contribuito all’aggiornamento della Chiesa di quel tempo, e non solo, quale uomo di Dio e testimone della trascendenza in grado di portare una ventata di Vangelo in un mondo fortemente secolarizzato».

Per Gian Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, Martini, «fine esegeta e biblista», ha vissuto «come testimone di autentica giustizia, quella che mira a riabilitare il condannato e l’emarginato», il suo rapporto con la città di Milano di cui fu arcivescovo dal 1979 al 2002. «Nel prototipo della grande città, alla luce del testo sacro – ha detto -, vedeva una grande macchina anonima che divora i suoi abitanti con i suoi ritmi e la frenesia, non sempre capace di accogliere chi è diverso»; la associava a «Babele, Sodoma, Ninive e Babilonia, teatri di grandi egocentrismi umani», quelli che «viviamo anche oggi, con la tecnologia che ci pervade, alienandoci, laddove non è più il vitello ad essere d’oro, ma l’algoritmo».

Le conclusioni sono state affidate a padre Carlo Casalone, presidente della Fondazione Martini, istituita un anno dopo la morte del cardinale, nel 2013. «C’è un forte nesso tra il senso di giustizia di Martini e la sua opera di diffusione della fede – ha affermato il gesuita -, così come c’è un legame profondo tra la sua formazione alla scuola di sant’Ignazio di Loyola e la sua missione pastorale degli anni milanesi». In particolare, nell’esperienza della Cattedra dei non credenti Casalone individua «quell’elaborazione spirituale, quasi come se il dialogo stesso fosse un’esercitazione dello spirito, che rimanda al patrimonio ignaziano che lo abitava». Quello con i non credenti, per Martini «non è stato un dibattito né un esercizio di apologetica» ma il segno di «un orientamento globale della sua vita, come un seminario di una ricerca su di sé, sulle ragioni del credere o del non credere, cioè sulle ragioni di quelle cose che per tanti di noi sono decisive».

24 giugno 2019