«Aladdin», nuove emozioni con il live-action del classico Disney

Il regista Guy Ritchie propone una versione della celebre favola, formula espressiva differente rispetto al film d’animazione del 1992. Quasi volti nuovi i due protagonisti

Un galeone solca tranquillo l’oceano, due bambini osservano altre imbarcazioni scivolare sulle acque, commentano tra loro che sarebbe stato bello conoscere le storie vissute da ogni nave a da ogni equipaggio. Il padre dei ragazzi capta questi desideri e subito li invita a sedersi e ad ascoltare un racconto di tanto tempo prima…L’inizio del film Aladdin, per la regia di Guy Ritchie, è volutamente modellato sulla modalità principale della storia di fiabe: “C’era una volta”, si dice e si diceva, ben tenendo presente che il precedente è nell’omonimo film d’animazione del 1992.

Allora eravamo nel campo dell’animazione vera e propria, secondo un taglio tradizionale e una gestualità consolidata. I sedici anni trascorsi significano però l’incontro con formule espressive differenti, quindi avanti con il live–action che vuol dire maggiore dinamicità, mobilità rinnovata, cadenze più incisive. A creare il punto d’incontro tra vecchio e nuovo, ci pensa la suggestione di partenza che, trovando ancora origine nelle novelle orientali tratte da “Le mille e una notte”, poggia su una base solida e di sicura attrattiva.

I personaggi sono dunque assai noti e non si corre, citandoli, il rischio di cadere nello spoiler. Quando il genitore dell’inizio comincia a raccontare, il primo ad apparire è Aladdin, giovane bello e povero, che gira per le stradine del paese con sulla spalla la fida scimmietta Abu. Quindi seguono il Sultano vecchio e saggio, il Gran Visir Jafar, il soldato Hakim. Tutti, quando sono entrati nei rispettivi personaggi, si trovano a lottare per conservare l’integrità del Regno di Agrabah di fronte alla minaccia rappresentata da un nemico perfido e cattivo. Non passa poi troppo tempo: il confronto/scontro tra Bene e Male si concretizza subito, mai sottaciuto, anzi palesemente portato in primo piano a mano a mano che il racconto procede.

Aladdin è il ragazzo ingenuo e scanzonato, allegro e di grande vivacità, incapace di perdersi d’animo, dedito a giochi di prestigio che spiazzano ogni persona vicino. Forse Aladdin è vicino agli adolescenti che in ogni tempo si sono presi bellamente gioco degli adulti che si pensavano furbi e invece erano destinati alla sconfitta? In certi momenti è come se una sottile spiegazione corresse in filigrana con le immagini. Naturalmente accanto ad ogni ragazzo che si rispetti c’è una ragazza che lo sostiene, lo incoraggia, lo ama.

Qui c’è Jasmine, figlia del Sultano, e ben voluta dalla popolazione. Senza aggiungere altro, è sufficiente dire che la chiusura è affidata al tradizionale “The end”, formula quasi scomparsa nel cinema contemporaneo dove il finale non viene detto perché lasciato alla decisione dello spettatore. Guy Ritchie si conferma regista eccessivo e fracassone, più adatto ad accrescere le potenzialità dell’azione che a sottolinearne il versante psicologico. L’ormai inevitabile accenno al MeToo si concretizza nel finale che gioca sul rovesciamento delle parti, provocando però un rischioso abbassamento di emozioni.

I due protagonisti (Aladdin/Mena Massoud; Jasmine/Naomi Scott) sono quasi volti nuovi più adatti per un serial e fanno giusta cornice agli altri interpreti che lavorano sull’equilibro di una spettacolarità convincente ma non invadente. Una versione di Aladdin in perfetta sintonia con il nostro tempo, dove non ci sono più né vinti né vincitori e i tre desideri sono espressione di bisogni concreti.

28 maggio 2019