Nostra sorella Osoppo

La solidarietà della diocesi nel 1976 dopo il terremoto che devastò il Friuli. L’editoriale di Venier, friulano, fondatore di Roma Sette

Ciò che è rimasto della fiorente cittadina di Osoppo nel Friuli è soltanto un ricordo; anzi neppure un ricordo, se essi stessi sono stati sommersi nelle macerie. Percorriamo quel po’ di piazza aperta (assieme a S.E. Salimei Vescovo Delegato per la Pastorale diocesana) con il parroco, don Massimiliano (Don Max, per i più giovani), un buono e serio ragazzone in camicia celestina, che parla quando deve e sorride con sofferenza; è terribile sentirlo ripetere (sono più di tre anni che, a diverso titolo, è pastore di questa gente): qui «doveva essere» il bar, là «doveva» essere un vicolo, qui «forse» un negozio.

Le macerie invano ammassate e ridotte da qualche ruspa solitaria, che ancora fa tutt’uno di polvere e fracasso, hanno reso il centro del paese un ammasso anonimo. Della chiesa di S. Maria della Neve è rimasto in piedi l’abside orribilmente mutilato e tutto il resto – colonne, fregi, santi, intonachi affrescati – è un cumulo di detriti.

Tutto perduto. Due soldati ancora giovinetti, tre ragazzine in bicicletta che vengono a raccontare al parroco le loro commissioni, sorridenti, con la sana incoscienza dell’adolescenza, sono gli unici segni di vita: perché non si può dire quella dei due fantasmi, un uomo e una donna, che stanno silenziosamente recuperando effetti personali e travi per qualche loro provvisoria ricostruzione o il passaggio di qualche rara automobile (emigrati costernati, turisti curiosi) o il rombo di un camion di servizio da cui si alternano frasi amichevoli con don Max. Il resto, silenzio. Il silenzio d’un campo devastato.

Ci rechiamo alle tendopoli. Il paese dovrà rinascere chissà dove, perché voragini e caverne esplose sotto terra, sconsigliano, forse, una ricostruzione in loco. Oggi le tendopoli, domani le abilitazioni di fortuna, in attesa di meglio, ma necessarie per difendersi dall’inverno. Una tendopoli che il Sig. Remigio, capotendopoli gallonato dalla base per i suoi meriti in campo durante i primi giorni della catastrofe, serve con passione e lungimiranza.

La percorriamo lentamente per un primo contatto con questi nostri fratelli che la diocesi di Roma si è impegnata di seguire, assistere, aiutare, mettendosi a disposizione della comunità. Nei brevi contatti con la gente risaltano subito i problemi vastissimi che li riguardano. Gente che non ha bisogno di nulla (in pratica hanno cibo, vestiti, medicine, danaro). Gente a cui manca tutto. Manca la propria casa. Mancano i propri morti. Hanno bisogno di contatto umano, di aiuto morale per la indefinibile attesa, di un modo costruttivo di sentire accanto i fratelli.

Due episodi ci sono stati significativi: il primo, la presenza, saccente e provocatoria, di due professoresse milanesi che contestano tutto ciò che si fa e tutto ciò che non si fa, con la reazione delle buone paesane che hanno sentito il bisogno di rincorrerci per «chiedere scusa»; il secondo, la presenza vivace di una ragazzina bergamasca, che scherza con le vecchiette sedute davanti alla tenda e le provoca a qualche battuta folk; ma esse sorridono come bambine. Roma porterà quassù quello che può. Importante che ci porti tanto cuore.

Al centro della tendopoli, issata su pali intrecciati, una campana che serve a tutti i richiami, ci ricorda gli antichi «comuni rustici»; ma le fa da risalto, intorno, una aiuola, dove sono già fioriti i primi fiori. Anche in questo frangente, la forte anima friulana sa esprimere, con il «buon senso» che la contraddistingue, anche la commovente testimonianza del suo connaturato «buon gusto». (Elio Venier)

25 luglio 1976