8 marzo, senza lavoro o part-time: 433mila madri italiane inattive

La causa principale: l’inadeguatezza dei servizi di assistenza. A Palermo la metà delle madri in età lavorativa è in questa condizione; poco più del 12,5% a Milano

A casa o part-time: nel mercato del lavoro italiano sono 433 mila le madri in questa condizione. La causa principale è l’inadeguatezza dei servizi di assistenza per i figli e per la cura a persone non autosufficienti. È quanto fotografato nell’indagine dell’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro “Donne al lavoro: o inattive o part-time” che, in occasione della Festa delle donne dell’8 marzo, ha analizzato i dati dell’occupazione femminile soffermandosi sulle cause che inducono le donne a scegliere il part-time o l’inattività e sulle retribuzioni di ingresso al momento dell’assunzione del lavoratore, mettendo a fuoco anche le pesanti conseguenze sul piano pensionistico derivanti da carriere discontinue o da tempi di lavoro ridotti.

In particolare, 280mila sono le donne con figli in condizioni di inattività e 153mila le occupate part-time che nel 2017 avrebbero potuto cambiare la propria posizione rispetto al mercato del lavoro se fossero stati adeguati i servizi per l’infanzia e per la gestione di persone non autosufficienti. I servizi citati sono non solo inadeguati, ma anche molto costosi rispetto alla media delle retribuzioni percepite e scoraggiano le donne che magari proferirebbero andare a lavorare. Osservando soltanto i grandi Comuni italiani, a Palermo quasi metà dell’intera platea di madri in età lavorativa (44,8%) si trova in questa condizione, mentre tale quota scende a poco più del 12,5% a Milano.

Delle 433mila mamme inattive o impiegate part-time, circa 381mila (88%) lamentano la carenza di servizi rivolti all’infanzia, e 52 mila (12%) di servizi rivolti alle persone non autosufficienti. E mentre al Nord si osserva una maggiore insufficienza dei servizi per i bambini (91,1%) rispetto a quelli per gli anziani (8,9%), nel Mezzogiorno è maggiormente sentita la carenza di assistenza domiciliare per gli anziani (15,6%) rispetto a quella per i bambini (84,4%). Inoltre, stando ai dati forniti dall’Osservatorio, oltre il 50% delle assunzioni di lavoratrici donne in Italia è di tipo part-time: un dato che nel 2017 ha raggiunto il massimo storico (54,6%) rispetto al 2009 (47,1%). E le conseguenze si vedono direttamente già dalla prima busta paga. Infatti, nonostante l’assunzione di 2,8 milioni di donne nel 2017 (rispetto a 3,2 milioni di uomini), il 35,7% ha ricevuto uno stipendio mensile inferiore a 780 euro. Nella classe di reddito da 1.500 a 2.000 euro gli uomini sono il doppio delle donne, mentre per i redditi ancora più alti il rapporto è di 1 donna ogni 3 uomini.

Quanto alla posizione territoriale, è il Molise, con il 46% delle donne assunte con uno stipendio inferiore alla soglia di povertà, a guidare la classifica seguito da Sardegna (45%), Abruzzo, Marche e Umbria con il 41%. Cosi’ ancor oggi le differenze salariali tra uomini e donne, specie al Sud e nel Centro Italia, sono evidenti. Nel 2017 queste ultime hanno avuto una retribuzione media da lavoro inferiore del 15,3% rispetto alla componente maschile. Un divario pari al 12,5% nelle classi di età più giovani, con una crescita massima del 20,4% per gli over 55. L’indagine si sofferma poi sulle cause del contratto di lavoro a tempo parziale per le lavoratrici donne, per la maggior parte dei casi “vittime” di part-time involontario (1,8 milioni), per una condizione dovuta soprattutto all’impossibilità di conciliare i tempi della maternità e della vita familiare con il lavoro.

Il 40,9% delle mamme tra i 25 ed i 49 anni è impiegata a tempo ridotto, contro il 26,3% delle donne senza figli. Mentre per i padri il lavoro part-time è una modalità residuale che in nessuna condizione supera il 10%. L’uso dell’orario ridotto ha conseguenze anche sul piano pensionistico. Condizioni discontinue di lavoro e a tempo parziale non consentono, infatti, di alimentare in modo continuo le posizioni previdenziali utili all’accesso alla pensione di vecchiaia.

Dai dati Inps sui beneficiari di pensioni in Italia è chiaro che, nonostante le donne beneficiarie di prestazioni pensionistiche siano 8,4 milioni (862 mila in più degli uomini), solo il 36,5% beneficia della pensione di vecchiaia – frutto della propria storia contributiva – contro il 64,2% degli uomini. Le donne, poi, laddove arrivino a percepire la sola pensione di vecchiaia, si vedono riconosciuto un assegno mensile inferiore di un terzo rispetto a quello degli uomini.

«Rafforzare i servizi di assistenza per la cura dei figli o delle persone non autosufficienti è quanto mai essenziale», ha commentato il presidente della Fondazione Studi Consulenti del lavoro Rosario De Luca. «Consentirebbe a tantissime donne – ha spiegato – di conciliare i tempi di lavoro con la cura della famiglia e di permettere ad un numero maggiore di donne di partecipare a pieno nel mondo del lavoro, in tutti i settori produttivi. Anche così – ha concluso De Luca – il nostro Paese riuscirebbe ad uscire dalla crisi del mercato del lavoro che, negli ultimi dieci anni, ha perso 1,8 miliardi di ore di lavoro pari ad 1 milione di occupati a tempo pieno».

8 marzo 2019