I neonati terminali e il senso della loro “vita breve”

Al Pontificio Istituto teologico Giovanni Paolo II il seminario di studio sull’Hospice neonatale. Parravicini (Columbia University): «Prima della morte c’è la vita». L’esperienza dell’ospedale Bambino Gesù

Da una parte la medicina come «arte per difendere la vulnerabilità». Dall’altra la nascita come «domanda di senso» che dà «nuovo contenuto al concetto di dignità umana», che non si misura in base alla «cosiddetta qualità della vita”, come se esistessero vite meno degne di altre di essere vissute». Juan José Perez-Soba, ordinario di Teologia pastorale del matrimonio e della famiglia al Pontificio Istituto teologico Giovanni Paolo II, ha utilizzato questi parametri per introdurre, nel pomeriggio di ieri, 25 ottobre, il seminario di studio “Hospice neonatale: un senso alla vita breve”, promosso dall’Istituto.  Il primo compito della medicina, ha spiegato, «è curare anche quando non si può guarire, e questo in ambito neonatale ha un senso molto forte, perché è l’unico modo per contrastare la mentalità di eutanasia neonatale, in caso di bambini con patologie life limiting, ossia senza speranza di vita, che si configura a tutti gli effetti come omicidio neonatale».

Dal Columbia University Medical Center di New York anche la neonatologa Elvira Parravicini, direttrice del Neonatal Comfort Care Program, ha riportato anzitutto il suo “motto”: «”Prima della morte c’è la vita”. Per questo il nostro primo consiglio ai genitori in attesa di bambini ai quali è stata scoperta una grave malformazioni o una patologia incompatibile con la vita è di godere di questi momenti nei quali il piccolo nella pancia della mamma sta benissimo», ha aggiunto. Purtroppo, ha spiegato l’esperta, la prima opzione offerta ai genitori in attesa di un bambino life limited «è l’aborto, mentre essi si attendono cure. La nostra mission, condivisa con il mio team, è preparare la famiglia alla nascita sapendo che non è una gravidanza normale». A partire dal corso pre-parto, «che sarà diverso da quelli standard. Poi si prepara il giorno della nascita, il giorno della vita, facendo a volte l’induzione del parto per avere tutta la famiglia e il sacerdote che può amministrare il battesimo».

L’importante, ha ribadito la neonatologa, è «preparare i genitori a qualsiasi evenienza: il bambino può nascere morto o sopravvivere alcuni minuti o ore, a volte per giorni o settimane. Noi prepariamo i genitori a essere pronti a tutto. Nel 2017 – il suo racconto – abbiamo incontrato 60 famiglie; sono nati 54 bimbi, di cui 9 morti prima di venire alla luce. Per 31 di loro abbiamo fatto il comfort care». E proprio questo fa la differenza: «Quando il bambino nasce deve essere in comfort, ossia in uno stato di benessere per raggiungere il quale abbiamo delle linee guida: spazi perché possa stare con tutta la famiglia; kangaroo care per mantenerne la temperatura ideale; prevenzione della sete se riescono allattati al seno oppure con il biberon. Infine la palliazione del dolore, quando c’è. Attimi di bellezza e amore – conclude -, segno che la vita è per sempre e non finisce».

Al Giovanni Paolo II anche la testimonianza di don Luigi Zucaro, assistente spirituale all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, che ha parlato della percezione di molti genitori, «a prescindere dalla loro religione», che spesso «hanno la sensazione che la morte del figlio sia una punizione per una loro colpa». La sofferenza di un bambino, ha evidenziato, « scandalizza tutti e confligge con l’idea di un Dio buono. Quale può essere allora il ruolo dell’assistente spirituale in un luogo come questo? Essere solidali, accompagnare sul piano umano, farsi compagni di viaggio». Spesso infatti, ha confidato il sacerdote, a prescindere dalla religione «ci si sente porre la domanda del perché se Dio è buono e onnipotente permette che i bambini soffrano». Si tratta, ha osservato, di «una domanda mal posta. Le persone spesso non hanno fatto una reale esperienza di Dio. Non serve una spiegazione ma una testimonianza». Il cappellano allora «deve essere un uomo di fede che abbia fatto un’esperienza di Dio nella propria sofferenza, che come Giobbe possa dire: io ti conoscevo per sentito dire, ma ora ti conosco faccia a faccia». Di qui la condivisione di un’esperienza. «Confidando nel potere che Dio ha di dare vita con la sua parola, ci siamo messi in un’avventura impossibile: annunciare Cristo ai genitori che hanno perduto i loro figli. Un progetto – ha riferito – nato dall’ostinazione di credere che Dio può far risuscitare ogni cuore umano, anche quello di una mamma che ha perduto il proprio bambino». Il gruppo, nato otto anni fa, si chiama “Tenuto per mano”. «Non si danno risposte – è la conclusione del cappellano -. I genitori si incontrano, piangono e pregano insieme. Stanno insieme».

Eppure «l’hospice neonatale sembra un controsenso», ha spiegato la psichiatra Monika Grygiel, del Giovanni Paolo II: «Come si può accompagnare un neonato alla morte?». Oltre alla lacerazione del distacco, la morte di un figlio «ci pone di fronte alla domanda: da chi saremo pensati, amati, ricordati? Prevale un sentimento di rabbia per un destino ingiusto. Allora perché sperimentare l’attesa della morte e dare spazio a questa attesa?», l’interrogativo posto dalla psichiatra. L’hospice neonatale, ha chiarito, «permette alla famiglia la presa di coscienza di un legame, ci parla della bellezza della vita, dell’importanza di una compagnia anche in circostanze come queste. La tentazione può essere quella di negare l’esistenza del dolore e del bambino, ma noi – ha aggiunto – sappiamo che la relazione con un figlio comincia prima della nascita, prima ancora del concepimento, nei desideri e nei sogni, e il lutto che i genitori manifestano in casi di aborto spontaneo anche nei primissimi giorni è testimonianza di questo legame». Proprio per questo «la comfort care praticata negli hospice neonatali risponde al desiderio del piccolo di essere amato e curato, anche se solo per pochi minuti o ore. Anche quel bambino – le parole dell’esperta – ha il diritto di abitare nella mente, nel cuore e poi nella memoria dei genitori».

26 ottobre 2018