Roberto Punzo, quando la disabilità è «antidoto all’omologazione»

Pilota dell’aviazione dell’Esercito, osservatore militare per le Nazioni Unite, in servizio dall’87. Nel 2006 viene ferito in Libano e costretto su una sedia a rotelle. L’anno scorso i successi sportivi agli Invictus Games

Ama il volo, le traiettorie. Roberto Punzo è stato pilota dell’Aves, l’aviazione dell’Esercito. E tra le sirene e le urla è proprio un elicottero a volare verso l’ospedale di Haifa per salvargli la vita. Vive a Roma. È in servizio dal 1987, prima come ufficiale dei Bersaglieri, poi come pilota. Nel 2005 e 2006 è osservatore militare delle nazioni Unite nella missione UNTSO, United Nations Truce Supervision Organization, al confine tra Israele, Libano, Siria. «Ero molto felice per quell’incarico: prestare servizio per le Nazioni Unite, come “goodwill ambassador”, cioè osservatore miliare Onu. Vorrei precisare che i militari dell’UNTSO prestano il loro servizio disarmati».

Sorride nella sua stanza, a Palazzo Esercito
, a Roma. «Sono entrato con le mie ruote», precisa. Scherza e ricorda il ferimento che da oltre dieci anni gli fa guardare il mondo da seduto, su una carrozzina a rotelle. «Sono un ottimista praticante», dice. Oggi è un atleta del Gruppo Sportivo Paralimpico Difesa, organismo costituito nel 2014 per promuovere lo sport a favore dei militari che, in Patria o all’estero, hanno contratto lesioni o malattie invalidanti e permanenti durante il servizio.

«Solo noi in Italia abbiamo il Ruolo d’Onore
. La Difesa permette il reinserimento del personale. Non è un atto caritatevole. Ma sottolinea la volontà di non voler perdere il bagaglio professionale. È voler dire che quell’uomo è importante anche se non ha più un ruolo operativo. Il modello italiano può essere un possibile riferimento per gli altri», sottolinea Punzo. «Anche nella pratica dello sport è rimasto il mio amore per le traiettorie: faccio tiro con l’arco, golf e il Para-Badminton». È il primo atleta paralimpico del badminton italiano. È campione italiano nel doppio maschile Para Badminton, bronzo Invictus Games Orlando 2016 tiro con l’arco, Invictus games Toronto 2017 tiro con l’arco a squadre. «La disabilità aumenta le abilità, le possibilità di fare, di metterci in gioco e in relazione con chi vive esperienze analoghe. Bisogna avere gli orecchi per ascoltare l’altro quando ti parla della sua sofferenza e offrire orizzonti nuovi».

Nel suo lungo racconto descrive come
è stato ferito. «È il 12 luglio 2006 quando, al confine con il Libano, vengono rapiti due soldati israeliani da uomini di Herzbollah. Da quel momento il nostro edificio si trova esposto in un conflitto: cannonate, missili, razzi, bombe. Questo era diventato il villaggio di Marun ar Ras, in Libano. La nostra postazione viene colpita tre volte. Poi arrivano 36 ore di tregua. Ricordo la mattina del 23 luglio. C’è silenzio nel villaggio. Pranziamo, poi con un mio compagno, Marc, andiamo a verificare la quantità di carburante ancora disponibile per i generatori. Arriviamo alla cisterna. Sento un gran boato. Un calore invade il mio corpo: non percepisco più i piedi, le gambe, i glutei. Mi caricano su una jeep e inizia una corsa disperata. Percorriamo due chilometri su una strada piena di ordigni inesplosi».

Poi il volo verso il policlinico di Rambam ad Haifa. «È l’ospedale dove hanno le più grandi competenze per ferite da guerra. Ricordo che un giorno è scattato l’allarme e i medici sono scappati tutti nei rifugi, lasciando noi pazienti da soli, ma era necessario per poter mantenere inalterata la capacità di operare anche se l’ospedale fosse stato colpito». È il 25 agosto quando torna in Italia e viene curato al Celio. «Le ferite da guerra mi avevano provocato molte infezioni. Sono le più difficili da curare». In un anno è sottoposto a 7 interventi chirurgici tra intestino e colonna vertebrale.

Al Santa Lucia fa la riabilitazione. «Il 4 novembre del 2006 mi mettono seduto per la prima volta da quando ero stato ferito e scopro che da seduto potevo fare cose che in piedi non erano possibili. Se non fossi finito sulla sedia a rotelle non avrei mai giocato a golf». E sottolinea: «Il Parabadminton in Italia non c’era. La mia esperienza ha aperto un nuovo orizzonte. Mi piace l’idea della competizione nel senso etimologico della parola e vorrei sottolineare il “cum petere”, ambire insieme. Mi piace sottolineare il “cum”, cioè la parola “con”, che sottolinea il senso di un cammino con gli altri». E ama giocare con le parole, oltre che con le traiettorie: «Chi vince non sa cosa si perde». «C’è un’altra cosa della disabilità che ho scoperto che va nel senso di quell’umanità irripetibile di ciascuno. Io e un altro possiamo avere le stesse due vertebre fratturate ma essendo organismi viventi siamo diversamente disabili. Questo nello sport emerge in modo netto perché servono accorgimenti ad personam».

Per Punzo «la disabilità è l’antidoto all’omologazione. È un’opportunità per valorizzare le differenze senza averne paura». Nel suo lungo racconto ricorda il momento dolorosissimo della visita medica che doveva decretarne l’inabilità a svolgere il servizio militare operativo. «Sentirmi uno scarto mi devastava. Invece, poi, essere impiegato diversamente mi ha aperto un orizzonte, una nuova vita. E ho capito che la mia presenza poteva aprire delle questioni. Faccio un esempio. Prima in questo palazzo non c’erano bagni per disabili, ora ne abbiamo uno per piano». Non solo. «Se penso alla palestra o alle protesi non lo faccio solo per me, ma per la comunità».

E ricorda: «La nostra missione ad Marun ar Ras, in Libano, prevedeva contatti con le persone del posto, ci ospitavano nelle loro case, perché, oltre a controllare che la tregua fosse rispettata, ci facevamo carico delle richieste d’aiuto della comunità locale, come quelle, ad esempio, di assistenza sanitaria. E parliamo di famiglie in cui ciascuna aveva 5 o sei congiunti morti per Herzbollah». «Solo nell’incontro con l’altro possiamo crescere e superare le barriere». Quasi un mese dopo l’incidente di Punzo, ad agosto 2006, nei combattimenti con i miliziani di Hezbollah rimangono uccisi 23 soldati israeliani, tra questi, Uri, figlio dello scrittore David Grossman. Il giovane due settimane dopo avrebbe festeggiato i suoi 21 anni. Anche qui, traiettorie. Mondi e storie diverse.

 

28 giugno 2018