“L’era dei muri”: sempre più barriere separano i popoli

Da Caritas italiana il dossier “Oltre il muro”. Nel 1989, quando cadeva quello di Berlino, se ne contavano 15. Oggi sono oltre sessanta. Il caso Israele

Nel mondo ci sono sempre più muri: non quelli metaforici che pure non mancano, ma quelli fisici, reali, costituiti da barriere fisiche che dividono i popoli. Nel 1989, anno della caduta del più celebre di essi, il muro di Berlino, se ne contavano quindici. Ora, quasi trenta anni dopo, ce ne sono la bellezza di 63. Molti dei quali straordinariamente giovani, se si considera che nel 2015 ne sono sorti 17 e l’anno successivo, il 2016, ne sono nati altri quattro. È per questo che si può legittimamente parlare di quella attuale come “Age of walls”, l’era dei muri.

Il dato, la cui fonte primaria è uno studio pubblicato nel 2016 dagli esperti della University of Quebec Elizabeth Vallet, Zoe Barry e Josselyn Guillarmou, è il cuore portante del dossier di Caritas italiana  “All’ombra del muro” presentato a Roma durante il seminario “Oltre i muri: comunità che si incontrano e raccontano” e disponibile on line. «La globalizzazione, che avrebbe dovuto portare a un progressivo abbattimento delle barriere rimaste, è stata in realtà – si legge nel dossier Caritas – causa di rinati timori sulla sicurezza. Un terzo dei Paesi del mondo presenta attualmente recinzioni, di diverse tipologie, lungo i suoi confini. In particolare, se nel continente africano se ne contano 12, due sono i muri che dividono l’America, separando gli Stati Uniti dal Messico, e quest’ultimo dal Guatemala. Sono 36 i muri che frammentano l’Asia e il Medio Oriente, mentre 16 le recinzioni che attraversano l’Europa, la maggior parte delle quali localizzate nella parte orientale del vecchio continente; 14 di queste barriere sono databili a partire dal 2013, quindi relativamente recenti. Una della cause principali alla base della loro costruzione è rintracciabile nella gestione dei migranti, in seguito alla riapertura della rotta balcanica».

Il boom della fortificazione (che coinvolge 67 Stati) riguarda in particolare gli ultimi anni; dal 2000 in poi circa diecimila chilometri di cemento e filo spinato hanno segregato terre e ribadito confini. Dall’Ungheria alla Bulgaria, dalle due Coree alla Cisgiordania, dall’Arabia Saudita all’India fino al muro di Trump al confine con il Messico, i Paesi si blindano per arginare i migranti e proteggersi dal terrorismo. Alle due tipologie principali (quelli a carattere anti flussi migratori, nati per proteggere gli Stati sovrani dalle invasioni delle nuove “orde barbariche”, e quelli innalzati contro popoli nemici aventi lo scopo di tutelare il proprio territorio da guerre e terrorismo portati da popolazioni limitrofe per motivi politici, economici, religiosi) se ne è aggiunto una terza, quella che ha portato alla costruzione di un muro a Pretoria (Sudafrica) per separare gli abitanti di una zona ricca residenziale da quelli della baraccopoli limitrofa: «Un muro costruito per separare i ricchi dai poveri che suona – commentano da Caritas italiana – ancora più assurdo in uno Stato che solo nel 1994 riuscì a scrollarsi di dosso il marchio dell’apartheid».

Il dossier affronta il tema dei migranti morti per superare i confini rappresentati da questi muri e approfondisce alcune di queste situazioni: quello fra Messico e Stati Uniti, ad esempio, è il confine il più trafficato al mondo, con 350 milioni di attraversamenti legali ogni anno, ed è anche uno dei più sorvegliati. Dal 2005 a oggi gli Stati Uniti hanno speso 132 miliardi di dollari per rafforzarne la sicurezza. Scontrandosi col fatto che il confine è così lungo che, secondo gli esperti Caritas, «è impossibile sorvegliarlo in maniera efficace». C’è il muro che separa la Repubblica Greca di Cipro dalla Repubblica Turca di Cipro, c’è la cosiddetta “Peace-Line” di Belfast, costruita a partire dal 1969 e che tuttora in Irlanda separa la Belfast cattolica da quella protestante; c’è  la barriera del 38esimo parallelo che dal 1948 frammenta le allora neonate Corea del Nord e Corea del Sud; ci sono i muri che l’India ha eretto al confine con il Pakistan e al confine con il Bangladesh; ci sono i confini militarizzati fra Arabia Saudita e Yemen, realizzati dal 2013 dal governo di Rihad, aventi lo scopo di impedire infiltrazioni terroristiche e bloccare il traffico di droga dallo Yemen.

E poi ovviamente, la situazione più emblematica di tutte, quella di Israele che a partire dal 2000 – si legge nel Dossier – «ha letteralmente recintato se stessa: ad oggi Israele è totalmente circondata da barriere che la isolano sia all’esterno dalle nazioni limitrofe (quali Libano, Egitto, Siria e Giordania); sia all’interno ribadendo gli eterni conflitti della Terra di Canaan, come testimoniano i muri della Cisgiordania e di Gaza». A nord il confine con il Libano è sigillato, così come lo è quello con la Siria nelle Alture del Golan. Con l’Egitto la barriera di filo spinato alta 5 metri corre da Eilat a Rafah, mentre il muro con la Giordania trova le sue motivazioni nella volontà di difendersi dall’invasione di rifugiati siriani, immigrati illegali e potenziali terroristi. All’interno del Paese centinaia di chilometri di muri separano Tel Aviv dalla Striscia di Gaza e dai Territori palestinesi occupati ed entro due anni verrà completato il muro intorno a Gaza, che si estenderà lungo i 96 chilometri della frontiera fra la Striscia e il sud di Israele. Il muro si snoderà sia in superficie che sottoterra.

Il Dossier ripercorre dal punto di vista storico e sociale il conflitto fra israeliani e palestinesi, sottolineando anche le conseguenze dell’occupazione israeliana su tutti gli aspetti dell’esistenza della popolazione palestinese, a partire dalla sicurezza e dall’incolumità. Con una parte di testimonianze dirette per comprendere le conseguenze delle barriere erette nella vita di un numero importante di persone. Parole di chi dice che «il muro mi impedisce di andare a Gerusalemme da oltre 25 anni» o di chi racconta come esso abbia diviso in due la sua vita e la sua famiglia. Nella parte finale del Dossier, poi, proposte e vie d’uscita. «Per costruire la pace c’è bisogno dell’incontro, occorre cioè creare opportunità di incontro e di conoscenza tra le due parti, cioè tra le due comunità». Una soluzione dal basso perché oggi più che mai nel caso israelo-palestinese appare quanto mai improbabile una soluzione dall’alto. Lo ha ribadito nel corso della presentazione anche padre Pierbattista Pizzaballa, attuale amministratore apostolico del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini e per lungo tempo, dal 2004 al 2016, Custode di Terra Santa: «Non vedo margini di soluzione nel breve-medio periodo: dopo il fallimento dei tentativi di pace promossi negli anni novanta, un accordo è possibile solo preparando con un’opera paziente e costante le due popolazioni, dimostrando con i fatti che nel concreto qualcosa può cambiare. Ma è un lavoro lungo e molto difficile».

18 settembre 2017