«Il colore nascosto delle cose», la sfida vinta di Soldini

Il regista individua la linea di passaggio dal documentario al racconto di fiction con la storia di una donna che ha perso la vista all’età di sedici anni

Nel 2013 aveva già affrontato l’argomento, girando “Per altri occhi”, un documentario che aveva al centro un gruppo di non vedenti e i loro mille modi di vivere la “normalità”. Da quella esperienza è nata a poco a poco l’idea di questo film «grazie al quale ho scoperto un mondo che, devo ammettere, immaginavo diverso, ho incontrato persone straordinarie, vitali, determinate, curiose, coraggiose la cui unica paura era che il mio sguardo su di loro potesse indugiare sulla pietà».

Così Silvio Soldini presenta “Il colore
nascosto delle cose”, il suo film più recente presentato fuori concorso alla 74esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e in sala da venerdì primo settembre. Soldini (già regista di titoli di successo quali “Pane e tulipani”, 2000; “Giorni e nuvole”, 2007, “Cosa voglio di più”, 2010) individua la linea di passaggio dal documentario al racconto di fiction, mettendo a fuoco la vicenda di Emma, una donna che ha perso la vista a sedici anni ma non ha permesso alla sua vita di precipitare nel buio. Impegnata professionalmente come osteopata, visita pazienti e tiene rapporti costanti con loro, ben decisa a non far pesare la sua disabilità. A cambiare le cose è l’incontro con Teo, pubblicitario quarantenne dalla vita sregolata e frenetica, abituato a vivere i rapporti di coppia in modo distratto e imprevedibile.

Quello che si delinea tra Teo ed Emma è un delicato scontrarsi tra due opposti, fatto di timidi approcci e di una incerta capacità di compiere i passi giusti. Preso nella sua quotidianità fatta di invenzioni, slogan, frasi a sorpresa rivolte a vendere meglio i prodotti, Teo vuole continuare a comportarsi così anche nella vicinanza con Emma, che sta al gioco, fino a quando la vita di lui non irrompe a spezzare il fragile equilibrio costruito. Aggiunge a tal proposito il regista: «L’aiuto dei non vedenti che conosco è stato fondamentale alla preparazione al film. Ma la consulenza è stata decisiva anche per precisare dettagli importanti nelle singole scene, per alcuni dialoghi, per avere esperienza diretta su come si compiono determinati gesti quando non si vede».

Affrontare la disabilità al cinema è, da sempre, un banco di prova terribile e rischioso. Va dato atto a Soldini di essersi gettato nella sfida, senza perdere di visto quel senso di misura, di dignità e di rispetto che hanno fino ad oggi connotato i suoi film. Spesso la paura di incorrere in errori o superficialità induce molto cinema (ad esempio quello americano) ad affidarsi ad attori di provata abilità (es. Dustin Hoffman in Rain man) con il conseguente rischio che l’interprete prevalga sul personaggio.

Qui la regia si muove con uno stile pacato, con toni quasi mai fuori posto, in linea con una compattezza narrativa che evita eccessi e scatti fuori onda. Accanto alla vicenda principale si aprono nel racconto alcune situazioni collaterali che allargano la visione d’insieme, e dicono che il film segue una linea di sicura tenuta etica e programmatica. Interpretando i due ruoli principali, Valeria Golino (Emma) e Adriano Giannini (Teo) aderiscono al desiderio del copione di essere dalla parte dei non vedenti. Forse la messa in scena poteva essere più grintosa, meno accomodante. Ma il valore del film resta intatto.

11 settembre 2017