Gender a scuola. La protesta dei genitori

Il Comitato Articolo 26: «Coinvolgere le famiglie nei progetti sulla sessualità». Monta il dissenso dei genitori, di qualunque estrazione sociale e credo, anche sui social: «Educare alle differenze, non cancellarle»

La favoletta di Mary e Francy, le due mamme che vogliono tanto un bambino ma hanno solo due ovetti e quindi sono costrette a comprare il semino, destinata ai bambini di un asilo nido della Bufalotta. Oppure, passando al liceo, il Giulio Cesare, la lettura del libro di Melania Mazzucco, Sei come sei, in cui è descritta nei minimi dettagli una scena di sesso orale omosessuale. Casi recenti balzati agli onori delle cronache che hanno scatenato polemiche e dibattiti, esempi di ciò che sta silenziosamente succedendo nelle scuole. Ci sono gli alunni da una parte e gli insegnanti dall’altra, destinatari di corsi di formazione per imparare la dottrina «gender» e proporla così ai propri studenti.

E poi ci sono i genitori, dimenticati, totalmente ignari dell’esistenza di questi progetti. Tutto è iniziato con la «Strategia Nazionale 2013 – 2015 per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere», adottata dal governo Monti nell’aprile del 2013 con decreto del ministro Fornero, sotto la cui direzione agiva il Dipartimento delle Pari Opportunità. Il Comune di Roma ha avviato una sorta di sperimentazione in alcune scuole per attuare percorsi in cui è proposta agli alunni la teoria del «gender», ovvero l’idea che non esiste una differenza biologica tra uomo e donna e che quella tra maschile e femminile sia solo culturale, e proporre corsi di formazione agli insegnanti.

«Spesso la scuola promuove iniziative senza accertare i rischi di alcuni progetti – afferma Maria Chiara, mamma di cinque figli, docente di scuola primaria e tra i fondatori del Comitato Articolo 26 – senza tenere conto del contesto educativo e primario che è la famiglia. Siamo genitori e docenti che hanno deciso di non restare in silenzio, di fare gruppo, perché in molti si sono ritrovati soli e indifesi ad affrontare i programmi dell’ideologia “gender”, spesso tacciati per omofobi e bigotti. Il nostro scopo è monitorare le iniziative e dove riteniamo necessario dire no, con toni pacati, facendo delle controproposte sempre con fine educativo». Il Comitato Articolo 26 (il riferimento è all’art.26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, «I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli») è apartitico e aconfessionale.

«Siamo nati quando ci siamo accorti che i progetti relativi alle differenze venivano portati avanti a senso unico: i libretti dell’Unar, il progetto comunale “La scuola fa differenza”, i corsi e convegni proposti dall’associazione Scosse, tutti supportati solo da decine di associazioni Lgbt e dell’area del femminismo radicale». Proprio Scosse, a settembre e novembre, ha organizzato in una scuola di Roma e con il patrocinio del Comune, il convegno «Educare alle differenze», destinato soprattutto agli insegnanti. Sono stati creati tavoli di lavoro divisi per fasce di età: «Nel tavolo 0 – 6 anni», continua Maria Chiara, «è proposta l’introduzione di transgenderismo, l’intergenderismo e il transessualismo, insegnamento indispensabile secondo i fautori che affermano la necessità di attuare le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità.

Nella fascia 0 – 4 anni si affronta il tema “Gioia e piacere nel toccare il proprio corpo e masturbazione precoce”, oppure, nella fascia 6 – 9, “Amicizie e amore verso persone dello stesso sesso e masturbazione”. La domanda è: su quale impianto scientifico e pedagogico si basa questo corso per educatrici? Cosa si vuole ottenere?». I risultati di questi insegnamenti si vedranno negli anni: «Ci dobbiamo aspettare generazioni fragili perché cresciute senza punti di riferimento e non escludo anche aspetti patologici – afferma Tonino Cantelmi, psichiatra e psicoterapeuta -. La teoria “gender” è imposta come una forma di violenza e non ha alcuna prova scientifica. La campagna è un cavallo di troia in cui si cela l’intento di sopprimere stereotipi, come maschi e femmine, creando una discriminazione. L’idea ad esempio di promuovere il travestitismo precoce è una forma di violenza nei confronti del bambino che tra l’altro, se vuole, già lo fa, senza imposizione. Se diamo una bambola ad un maschietto probabilmente la imbraccerà come un fucile. Alcune inclinazioni si manifestano prima che il bambino si dichiari maschio e femmina, è un fenomeno biologico».

La richiesta è di condividere i progetti e la facoltà dei genitori di decidere per i propri figli. «Io genitore – sottolinea Maria Chiara – non voglio che presentazioni di certe realtà siano fatte in mia assenza, senza tener conto di come voglio crescere i miei figli. Vorrei educare i figli al rispetto e all’accettazione di tutti, senza però che venga scavalcato ciò in cui crede la famiglia e senza essere tacciata per oscurantista, arretrata e omofoba. Questo non deve essere confuso con il dire no a proposte senza basi scientifiche che vogliono distorcere il dato di natura». Qualcosa si sta muovendo: questi progetti silenziosi che si stanno diffondendo nelle scuole hanno creato per contrasto molti gruppi formati da genitori e insegnanti come «No alle favole gay negli asili» su Facebook, associazioni di genitori di qualunque estrazione sociale e credo. Chiedono una sola cosa: essere convolti nella crescita e nell’educazione dei propri figli. «Per educare alle differenze – conclude Maria Chiara – non si possono cancellarle».

 

1 dicembre 2014