Gli hospice, presidio contro il “dolore totale”

Dopo Montebelluna, don Carlo Abbate, assistente spirituale a Villa Speranza: «Le cure palliative non hanno nulla a che vedere con l’eutanasia»

Don Carlo Abbate, assistente spirituale a Villa Speranza, racconta il sostegno a  malati e familiari: «Le cure palliative non hanno nulla a che vedere con l’eutanasia»

Far conoscere gli hospice, realtà in grado di sostenere i malati terminali e le loro famiglie. Per don Carlo Abbate, assistente spirituale all’hospice “Villa Speranza”, l’obiettivo principale rimane questo. All’indomani del clamore mediatico suscitato dalla notizia del 70enne di Montebelluna morto nel sonno dopo una battaglia durata cinque anni contro la Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), che ha richiesto e ottenuto la sedazione palliativa, il sacerdote evidenzia che gli hospice sono ancora poco conosciuti e la gente ignora che esistano strutture in grado di supportare malati e familiari in un momento tanto delicato della vita. Divulgare il loro lavoro è un «obiettivo culturale – evidenzia – perché nel momento in cui la sofferenza e il dolore della malattia arrivano ai vertici massimi gli hospice sono in grado di fornire una via privilegiata per sopportarli, fornendo quelle terapie in grado di controllare il dolore evitando che i malati cadano nel cosiddetto “total pain”, vale a dire il dolore totale».

Il sacerdote spiega che la malattia in fase avanzata minaccia fortemente l’essere umano nelle sue quattro dimensioni: fisico, psichico, sociale e spirituale. Per questo motivo gli hospice sono improntati in un lavoro di equipe ed operano insieme figure professionali anche molto diverse fra loro: medici, psicologi, volontari, assistenti spirituali e sociali. Tutte collaborano e interagiscono tra loro in base alle proprie competenze: al termine di ogni visita l’equipe tiene un briefing per confrontare e analizzare le rispettive informazioni e pianificare insieme il percorso da seguire. «L’aspetto spirituale e psicologico – prosegue don Carlo -, per quanto importanti per il malato terminale, integrano il percorso clinico. Quello spetta esclusivamente al medico e al rapporto che ha instaurato con il paziente e la famiglia».

Il supporto spirituale e religioso è quindi integrato in quello terapeutico delle cure palliative che hanno nel loro dna un trattamento che ha come esclusivo scopo quello di controllare il dolore: «Queste non anticipano, non posticipano né tanto meno provocano la morte – sottolinea l’assistente spirituale -. Le cure palliative non hanno nulla a che vedere con l’eutanasia ma vengono somministrate per accompagnare con dignità una persona verso un percorso naturale della vita. Il paziente in fase terminale in quel particolare momento non ha bisogno poi solo di antidolorifici e analgesici ma anche di un appoggio psicologico, spirituale e sociale».

16 febbraio 2017