Verso il referendum/7. Francesco Pallante: «No a “questa” riforma»

Il costituzionalista illustra i punti critici del testo Boschi. Il rischio principale: «L’accentramento del potere nelle mani del governo»

Il costituzionalista dell’Università di Torino illustra i punti critici del testo Boschi. Il rischio principale: «L’accentramento del potere nelle mani del governo»

Costituzionalista all’Università degli studi di Torino, coordinatore del circolo locale di Libertà e Giustizia, associazione dal 2002 tra i protagonisti del dibattito politico italiano, Francesco Pallante boccia con «un’insufficienza molto grave» la riforma della Costituzione firmata Boschi, su cui i cittadini sono chiamati a esprimersi il prossimo 4 dicembre. Ne illustra gli obiettivi «non condivisibili» e le criticità. A partire dal rischio dell’accentramento del potere nelle mani del governo. Il risparmio? «Meno di un caffè per ogni cittadino»

Quale è lo stato di salute della nostra Costituzione? Porta ancora bene gli anni che ha o le occorre un restyling?
Credo che la Costituzione italiana soffra soprattutto un difetto di attuazione. La parte sui rapporti economici – con l’idea che il lavoro dia dignità all’esistenza delle persone – è oramai quasi del tutto ignorata, così come l’articolo 53 sulla progressività fiscale. Gli stessi diritti alla previdenza, all’istruzione, alla salute sono in declino: per la prima volta, è diminuita l’aspettativa di vita alla nascita degli italiani… Questi mi paiono i veri problemi dei cittadini, non il Senato. Dopodiché, andrebbe anche ricordato che la Costituzione italiana è tutt’altro che la stessa da 70 anni, nel tempo sono stati cambiati oltre 40 articoli.

Obiettivo della riforma è il superamento del bicameralismo perfetto: occorre davvero? Cosa accadrà all’iter legislativo? Le nostre leggi saranno meno equilibrate?
I numeri ci dicono che l’Italia produce ogni anno un numero di leggi analogo, se non superiore, a Germania, Francia, Spagna, Regno Unito. Davvero abbiamo bisogno di incrementarne il numero? Non abbiamo già un ordinamento oberato da un numero eccessivo di leggi? È stupefacente: siamo convinti, nel contempo, che il Parlamento non possa decidere e che l’ordinamento sia composto da troppe leggi! Il problema è la qualità, non la quantità delle leggi. La riforma interviene su questo? Semplifica il sistema? La risposta è no. Il nuovo articolo 70 vorrebbe sostituire l’attuale unico procedimento legislativo con un sistema in base al quale il procedimento da seguire dipende dalla materia che si vorrà regolare, moltiplicando il numero dei procedimenti. E se una legge intende regolare più materie? Quale procedimento andrà seguito? La riforma prevede che decideranno i presidenti delle Camere di comune accordo. E se non si accordano? Dovranno rivolgersi alla Corte costituzionale. Attenzione: si andrebbe alla Corte costituzionale non per un giudizio sul merito della legge ma sul metodo da seguire per approvare la legge. Il sistema diventerebbe più complicato, non più semplice. Perché, molto più semplicemente, non si è detto che in tutte le materie la Camera approva la legge, il Senato può proporre modifiche e, se lo fa, la Camera decide poi in via definitiva?

Il Senato “ridotto” farà risparmiare lo Stato e dovrebbe fungere da raccordo tra Stato, Regioni e Comuni. Potrà proporre leggi ed emendamenti ma la Camera non avrà l’obbligo di prendere in considerazioni i suoi rilievi. Di fatto sarà un organo “svuotato” per alcuni aspetti ma per alcuni tipi di legge dovrà votare paritariamente insieme alla Camera. Funzionerà meglio? In che modo “raccorderà” Stato, Regioni e Comuni? Con quali vantaggi?
La Ragioneria generale dello Stato ha calcolato che il nuovo Senato di 100 membri senza indennità (ma con immunità) farà risparmiare 49 milioni di euro all’anno. Meno di un caffè per cittadino italiano. Bisognava cambiare 47 articoli della Costituzione per ottenere questo risultato? Dimezzando le indennità dei parlamentari si sarebbe risparmiato il doppio, perché la maggioranza si è opposta a questa misura? E poi: sarà un Senato eletto dai Consigli regionali, non più dai cittadini. Davvero il nostro voto vale meno di un caffè? Quanto alle funzioni, a leggere il nuovo articolo 55 si potrebbe immaginare un Senato dai poteri mirabolanti: addirittura dovrebbe occuparsi di valutare tutte le politiche pubbliche e tutta l’attività di tutte le pubbliche amministrazioni, di verificare l’impatto di tutte le politiche dell’Ue e l’attuazione di tutte le leggi dello Stato, di partecipare a tutte le decisioni dirette alla formazione e all’attuazione di tutti gli atti normativi e di tutte le politiche dell’Ue… per non dire della misteriosa funzione di “raccordo” che nessuno sa dire cosa realmente significhi. È ben poco credibile che anche una sola di queste attività possa essere svolta da senatori a mezzo servizio, dato che nel contempo dovranno operare anche come consiglieri regionali o sindaci.

A proposito del Titolo V: molte materie passerebbero alla competenza esclusiva dello Stato ma su alcune la definizione dei ruoli non è nettissima. Penso alla sanità: le Regioni hanno in capo l’organizzazione dei servizi, uno dei punti dove maggiormente è tangibile, ad esempio, la diseguaglianza tra nord e sud nell’accesso ai servizi. Come valutiamo la riforma dal punto di vista dell’autonomia delle Regioni?
Le Regioni perdono indubbiamente parte del loro ruolo e, data la prova che molte di loro hanno dato in questi anni, appaiono difficilmente difendibili. Vedo però tre problemi. Il primo è la confusa ridefinizione delle competenze (come quella sulla sanità, ma non solo: lo stesso vale per i beni culturali e paesaggistici, per il governo del territorio, per l’istruzione, ecc.), che aprirebbe una nuova stagione di contenzioso davanti alla Corte costituzionale, proprio ora che si stava finalmente trovando un equilibrio. La seconda è la clausola di supremazia statale affidata alla decisione non del Parlamento ma del governo, che è organo di parte che decide senza discussione pubblica. La terza è la permanenza delle regioni a Statuto speciale, in gran parte anacronismi storici che si sono tradotti in privilegi fiscali: perché non è stata colta l’occasione per abolirle?

Il referendum abrogativo prevederà un quorum ridotto mentre per proporre leggi di iniziativa popolare le firme necessarie saranno triplicate, da 50 a 150mila. Da una parte sarà più facile dire “no”, ma dall’altra non si rischia di scoraggiare l’interesse per la politica?
Temo anch’io che l’effetto di questi interventi sarà un allontanamento dei cittadini comuni dalla politica. Io ho partecipato alla raccolta delle firme contro l’Italicum e contro la legge di revisione costituzionale e ho potuto toccare con mano quante siano le difficoltà da affrontare. Non avendo avuto alle spalle associazioni già strutturate, abbiamo impiegato la metà del tempo disponibile a organizzarci. Portare a 800mila le firme per il referendum abrogativo, per poter contare su un quorum più basso, significa che solo chi già dispone di strutture organizzate, come i partiti o i sindacati, potrà raggiungere l’obiettivo, non certo i semplici cittadini.

Qualcuno, a proposito dello scenario prospettato da questa riforma, parla di “strapotere” del governo (penso al commissariamento degli enti locali e alla cosiddetta “clausola di supremazia” rispetto alle materie di competenza regionale). Potrebbe essere così?
Temo di sì. Il governo diventa il vero centro del sistema costituzionale, prendendo il posto del Parlamento. Ho già ricordato la clausola di supremazia, che rende il governo (non il Parlamento) padrone delle competenze regionali. Vi è poi il voto a data certa, che consente al governo di assumere il controllo dell’agenda parlamentare, imponendogli i tempi entro cui decidere sui propri disegni di legge. Inoltre, in mano alla coppia governo-maggioranza finirebbero gli organi di garanzia: il presidente della Repubblica, i giudici della Corte costituzionale di elezione parlamentare, i membri laici del Consiglio superiore della magistratura. Persino lo Statuto delle opposizioni verrà approvato … dalla maggioranza! Per non dire della dichiarazione di guerra e, con qualche difficoltà in più, della legge di amnistia e indulto.

Soppressione del Cnel: cosa ne pensa?
Per come si è concretamente comportato negli anni, il Cnel non è difendibile. Ma l’idea originaria era interessante: cosa c’è di più attuale dell’idea che i problemi dell’economia e del lavoro vadano affrontati non a livello individuale ma associativo?

Riassumendo: quali sono i lati positivi della riforma Boschi? Quali invece le criticità e i rischi? Riusciamo a dare un voto?
Onestamente, lati positivi non ne vedo. Più si legge, si studia, si approfondisce il testo della riforma, più si scoprono problemi, contraddizioni, incongruenze. Persino la sintassi appare stentata. Le maggiori criticità sono la complicazione del procedimento legislativo e la contraddittoria composizione del Senato. Il rischio principale è l’accentramento del potere nelle mani del governo, ben al di là, per esempio, di quanto avvenga negli Stati Uniti, dove il Congresso è molto forte e svincolato politicamente dal presidente. Il giudizio complessivo sulle riforma non può che essere un’insufficienza molto grave.

Perché un elettore dovrebbe votare no?
Perché la riforma persegue obiettivi non condivisibili, come il rafforzamento del governo senza bilanciamenti, ed è molto mal pensata e scritta, come sul Senato e sul procedimento legislativo. Questo non significa che la Costituzione non possa essere modificata, anzi. Molti autorevolissimi costituzionalisti schierati per il No (Zagrebelsky, Pace, Carlassare, Dogliani, Ferrara, Azzariti) avevano avanzato interessantissime proposte. Non sono stati presi in considerazione. Perché? Perché, pur nella loro diversità, tutte le loro posizioni avevano punti di equilibrio, nessuna metteva l’esecutivo nella condizione di agire liberamente senza ostacoli, come invece è nelle intenzioni del governo. Il No respinge questa riforma, non qualsiasi riforma. Se vince il No, saranno possibili riforme realmente migliorative.

4 novembre 2016