“Moby Dick”, oltre i confini del romanzo

Nuova traduzione per il libro di Melville, unico nella letteratura moderna, segnato da un “doppio passo”: da una parte il salmo, dall’altra il codice

Nuova traduzione per il libro di Herman Melville, unico nel panorama della letteratura moderna, segnato da un doppio passo: da una parte il salmo, dall’altra il codice

Rileggere i grandi libri, quelli che hanno marchiato la nostra gioventù, significa anche tornare indietro, in un duplice senso: verso se stessi e nella storia del mondo. L’ultima traduzione di “Moby Dick” di Herman Melville, consegnata da Ottavio Fatica a Einaudi (pp. 673, 30 euro) dopo anni di incessante lavoro, diventa quindi uno strumento di verifica delle emozioni adolescenziali, quando, come sarà capitato a molti di noi, conoscemmo la sete di vendetta del capitano Achab nei confronti della balena bianca, che gli aveva spezzato la gamba e ucciso un figlio, attraverso le riduzioni narrative offerte dagli editori ai piccoli lettori.

Ricordo ancora la copertina in plastica blu con il disegno di un drago marino. Si trattava di semplici didascalie rispetto al quadro grandioso dal quale ero rimasto escluso, che peraltro non avrei potuto neppure immaginare, tuttavia furono sufficienti a farmi sgranare gli occhi di fronte ai ramponieri tatuati, ai marinai issati sulle vele, ai capodogli pronti a stagliarsi quali atavici mostri sulla vastità incomprensibile dell’oceano. Nel momento in cui, tanto tempo dopo, affrontai il testo originale, filtrato dalla voce carismatica ancorché filologicamente incongrua di Cesare Pavese, restai quasi annichilito: quella riflessione biblica sulla natura inquietante, se non proprio maligna, degli esseri umani; quella scrittura allo stesso tempo epigrafica e sciolta, solenne e realistica, documentaria e metaforica; quei personaggi, primo fra tutti Ishmael, il narratore, incisi come bassorilievi sulla fantastica imbarcazione, il Pequod, lanciata in una folle corsa nel vuoto degli abissi; tutto potevano essere, non certo un romanzo per giovani lettori.

Riprendo alcune antiche sottolineature aggiornandole con la nuova traduzione: «Come fa il prigioniero a venire fuori se non abbatte il muro?» è la domanda di Achab. E questa la sua risposta, in numerosi sensi rivelatrice: «Per me quel muro è la balena bianca: me l’hanno addossato contro. A volte penso che al di là non vi sia nulla». Chiunque si avvicini a questo classico della narrativa ottocentesca resta piuttosto segnato dalla visione tragica che lo sostiene, con un sottile fascino antiquariale, capace di rappresentare in azione sulla baleniera le forze in grado di muovere l’universo, senza mai dimenticare il richiamo concreto alle sue tecniche: è proprio questo doppio passo, di qua l’inno lirico, di là lo studio sistematico, da una parte il salmo, dall’altra il codice, che spinge Melville a superare i confini del romanzo collocando il suo testo, unico nel panorama della letteratura moderna, nei registri immortali dove sono presenti Giobbe e la Divina Commedia, i drammi di Shakespeare e le peripezie di Don Chisciotte. E così, quando la nave sprofonda nelle acque, insieme al capitano incapace di venire a patti col proprio destino, è come se scendesse all’inferno, ma nel farlo trascina con sé «una parte viva del cielo per farsene elmo».

1° febbraio 2016