Lettera alla città. Affinati: «Ineludibili accoglienza e integrazione»

L’insegnante-scrittore interviene sul tema immigrazione: «I nostri piccoli profughi, sfuggiti agli integralismi, possono ritrovarli qui»

L’insegnante-scrittore interviene sul tema immigrazione: «I nostri piccoli profughi, sfuggiti agli integralismi, possono ritrovarli qui»

Roma ha bisogno di «un supplemento d’anima». Questo l’invito con cui il cardinale vicario Agostino Vallini termina la “Lettera alla città” firmata con il Consiglio pastorale diocesano. E queste parole sono per lo scrittore Eraldo Affinati un pungolo da cui ripartire per uscire dagli steccati. Affinati da dieci anni, insieme alla moglie, Anna Luce Lenzi, ha fondato la “Penny Wirton”, una scuola gratuita di italiano per immigrati. Un’esperienza nata da un incontro. Con Alì, Mohammed, Francisco, Ivan. Giovani che arrivano dal Maghreb, dal Bangladesh, da Capo Verde, dalla Nigeria, dalla Romania e dall’Afghanistan. Hanno tutti bisogno di riscrivere la loro vita.

Chi sono gli immigrati che vivono a Roma?
Sono ragazzi arabi, afghani, bengalesi, slavi, africani, vengono da tutto il mondo. Però abbiamo anche adulti che hanno bisogno di migliorare le loro conoscenze linguistiche. Ci sono anche alcune mamme con bambini.

Quali i loro sogni e le loro paure?
Il primo obiettivo è trovare lavoro. Ma come riuscirci se non si conosce la nostra lingua e non si hanno soldi per pagare le lezioni? La nostra scuola è senza classi, senza voti, senza burocrazie. Abbiamo bisogno di tanti volontari perché puntiamo sul rapporto uno-a-uno. In questo momento siamo ospiti del Liceo scientifico Keplero, la cui preside, Maria Concetta Di Spigno, ci concede l’uso gratuito di sette aule.

Cosa promuove una cultura dell’incontro?
Soltanto se guardi negli occhi chi hai di fronte, se conosci la sua storia e ti fai conoscere da lui o da lei, puoi superare la paura, l’insicurezza, la possibile chiusura. Mai come in questa fase storica è necessario trovare gli strumenti culturali per favorire il dialogo. È un percorso difficile ma ineludibile. A Roma ci sono tante belle persone disposte a mettersi in gioco, pronte a dare tutto, ma troppo spesso rischiano di essere invisibili, esattamente come i poveri vagabondi che vorrebbero aiutare.

La sua esperienza con gli immigrati che cosa le ha insegnato?
Mohamed mi ha regalato i suoi sorrisi. Hafiz mi ha fatto capire chi sono. Rashdur è come se tutti i giorni mi portasse a Dacca. Il piccolo Sharif, nelle braccia di sua madre, mi insegna cos’è la potenza umana, visto che suo padre, Khaliq, ex studente alla Città dei Ragazzi, è sopravvissuto alla terribile guerra civile scoppiata in Sierra Leone agli inizi degli anni Novanta. È stato proprio lui a darmi il titolo del mio ultimo romanzo, quando andai a trovarlo in Africa e, volendo descrivere il nostro viaggio, diceva: Professore, quella che stiamo vivendo è “Vita di vita!”

Dopo i fatti di Parigi coglie delle differenze nella capitale? E negli immigrati?
Vedo i soldati nelle stazioni metropolitane e percepisco la preoccupazione. Questo è normale. Ma il rischio è che il legittimo timore si trasformi in psicosi e ci faccia tornare indietro di vent’anni nei processi di integrazione sociale che pure sono stati compiuti. I nostri piccoli profughi, sfuggiti agli integralismi nei loro Paesi, possono ritrovarli qui, dove meno se li aspettavano. E noi potremmo precipitare giù nel pozzo insieme a loro. È proprio questo che dovremmo evitare.

Ripartire dall’educazione. Questo il monito del cardinale. Quali azioni sarebbero necessarie?
Alcuni temi, indicati dal cardinale, li ritengo essenziali: la frantumazione urbanistica, gli steccati fra diverse classi sociali, il rischio digitale. Soprattutto l’invito rivolto alle parrocchie ad aprirsi per organizzare corsi di lingue gli immigrati, dando spazi e accoglienza. Se ciò davvero avvenisse, questa città potrebbe cambiare perché i volontari, lo dico per esperienza diretta, sono contagiosi: accendono la passione nei confronti dell’essere umano. È un lavoro antropologico che dobbiamo fare tutti insieme.

Secondo lei quale disagio vivono i giovani
Innanzitutto la solitudine, anche e soprattutto quella mascherata, che non si vede ad occhio nudo e può annidarsi in mezzo gruppo. È per questo che, nel mio piccolo, sto andando nei licei romani a cercare studenti da trasformare in volontari. Trovo sempre grande disponibilità ed entusiasmo. A quindici, sedici anni tutto è possibile. È da lì che dobbiamo ripartire.

Sta per uscire il suo nuovo libro. Di cosa tratta?
È un volume su don Milani. È stato un rivoluzionario. Bisogna ripartire da lui per riscrivere la scuola, strumento fondamentale per uscire da questa palude.

 

30 novembre 2015