“Iddu”, dentro «un vuoto amorale»
Nella pellicola di Grassadonia e Piazza – in concorso a Venezia 81 – il confronto tra il boss Matteo Messina Denaro e il perdente ex preside di scuola Catello, chiamato a collaborare per incastrarlo
Matteo Messina Denaro è un nome che si pronuncia a fatica, sempre consapevoli della brutta storia che per tutta la vita lo ha accompagnato, all’insegna di violenza e soprusi. Per questo, all’annuncio che il quinto film italiano in concorso a Venezia 81 era Iddu. L’ultimo padrino qualche perplessità è corsa tra i presenti. Come spesso capita, bisognava soltanto aspettare per capire in quale ottica veniva affrontato e proposto il tema.
Dal 10 ottobre il film è nelle sale e la riflessione diventa più agevole. Quindi Messina Denaro ci chiama a confrontarci con una figura che definire negativa e divisiva è poco. Conosciamo bene la storia: per un trentennio ha dettato le regole di una incivile convivenza fatta di omicidi e di cieca obbedienza alle sue regole. E qui la storia del film torna indietro, alla Sicilia degli anni Duemila, dove Catello, un ex preside di scuola, dopo incarichi in politica come sindaco e consigliere, viene arrestato per collusione con la malavita. Quando esce di prigione, gli viene offerta dai Servizi segreti la possibilità di collaborare per incastrare Denaro, già noto come imprendibile superlatitante.
Si tratta per Catello di un’occasione ma anche di una sfida che si gioca sul filo del mettere a rischio vita e famiglia… Così, quasi senza darlo a vedere, il racconto è passato dalla realtà alla finzione: la realtà di un brutto nome autentico e la finzione di un confronto con il tessuto profondo della mafia siciliana. Più la materia trattata diventa vischiosa, più la riflessione svaria di tono e approccio: ci si muove tra farsa, black comedy e dramma civile in un rimbalzo di sentimenti fatti apposta per rendere incendiari i protagonisti.
A prendere in mano le redini di questo difficile puzzle provvedono i due registi: Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, il primo nato a Palermo nel 1968; il secondo a Milano nel 1970. Il film che li ha rivelati al grande pubblico è stato Salvo, vincitore del Premio della Critica al Festival di Cannes 2013, seguito da Sicilian Ghost Story nel 2017. Titoli che indicano una precisa volontà di argomenti con il di più di una discesa nell’inferno della malavita sempre in attesa di un impossibile riscatto.
«L’idea iniziale del film – hanno detto a Venezia – è nata dalla lettura dei numerosi pizzini trovati nel corso della lunga latitanza di Messina Denaro. Da qui il carteggio tra Denaro (realtà) e Catello (finzione)… Cosi ci immergiamo nel vuoto amorale dentro il quale un popolo sguazza». Il confronto tra vero e falso entra con prepotenza in primo piano, affidato soprattutto alla performance di Toni Servillo e alla sua consueta abilità nel disegnare il perdente Catello. Preso in una girandola di misere astuzie. Catello finisce per cogliere solo danni e sofferenze. Lo sguardo dei due registi è feroce e palesemente abitato dai vinti.
29 ottobre 2024