Alla riscoperta del primo Handke

Torna “Infelicità senza desideri”, il libro del Premio Nobel per la letteratura pubblicato quando l’autore austriaco veniva già considerato uno dei narratori più importanti della sua generazione

Torna, nelle edizioni Guanda, il primo indimenticabile Peter Handke, premio Nobel per la Letteratura 2019, quello di Infelicità senza desideri, pubblicato nel 1972, quando l’autore austriaco, a soli trent’anni, veniva già considerato uno dei narratori più importanti della sua generazione, avendo dato alle stampe diversi racconti, saggi e raccolte di poesie, nonché un paio di romanzi brevi in grado di catturare l’attenzione del pubblico, fra i quali ricordiamo Prima del calcio di rigore, da cui Wim Wenders trasse poi un celebre film. La collaborazione fra i due artisti proseguì nel tempo in modo proficuo con altre diverse opere: Il cielo sopra Berlino (1987) su tutte.

Detto questo, Infelicità senza desideri, che in Italia uscì nel 1976 presso Garzanti nella traduzione di Bruna Bianchi, la stessa riproposta oggi, resta una pietra miliare. È la storia della madre dello scrittore, morta suicida, a soli cinquantuno anni, dopo aver ingerito molte pastiglie analgesiche e una cospicua dose di antidepressivi. La sua vita intensa e fulminante venne rievocata a caldo dal figlio ventinovenne appena apprese la notizia dall’edizione domenicale della Volkszeitung, un giornale della Carinzia.

Sin dalle prime righe del diario, quasi allucinato, con un ritmo serrato e incandescente, nella tensione autobiografica, filtra un sentimento di partecipazione straniata al drammatico evento, che non può non far pensare allo Straniero di Albert Camus: «Sono passate ormai quasi sette settimane da quando mia madre è morta, e voglio mettermi al lavoro prima che il bisogno di scrivere di lei, così forte al funerale, si ritrasformi nell’ottuso mutismo con cui ho reagito alla notizia del suicidio». Nelle pagine seguenti la figura della protagonista, di origine slovena, messa incinta da un uomo sposato, padre del futuro scrittore, poi unita in matrimonio con un sottufficiale della Wehrmacht che la condusse a Berlino e dal quale ebbe altri figli, emerge nella sua misteriosa sventatezza come quella di una donna ferita in perpetua fuga anche da sé stessa: «Nella primavera del 1948, mia madre abbandonò, col marito e i due figli, la bambina di un anno nella borsa della spesa, il settore orientale, senza documenti».

L’inesorabile epilogo («Mi scriveva che era tranquilla e felice di addormentarsi finalmente in pace. Ma io sono sicuro che non è vero») viene narrato a ciglio asciutto da una drammatica distanza esecutiva, quasi fosse un referto. Difficile trattenere l’impressione che nella donna vibrasse l’inconsolabile solitudine dell’Europa uscita sconvolta dalle macerie della Seconda guerra mondiale. «Più avanti scriverò di tutto questo in modo più preciso», conclude Peter Handke. In verità l’ha fatto in tutti i libri composti in seguito, come cercando le parole che la madre non era riuscita a formulare, innanzitutto per sé stessa, lasciando al figlio il compito da lei non svolto.

11 giugno 2024