Indi Gregory, Gambino: dall’Italia, «prova di resistenza» per la cultura della vita

Il giurista, membro del Comitato nazionale per la bioetica e membro italiano Ecri, si esprime sulla vicenda della neonata malata terminale. Il peso del «fattore culturale»

La presa di posizione e il «dissenso» manifestato dall’Italia rispetto alla vicenda della piccola Indi Gregory – la bimba di 8 mesi affetta da una rara malattia mitocondriale che si è spenta la notte del 13 novembre in un hospice in Inghilterra dopo che l’Alta Corte di Londra aveva disposto per lei la sospensione dei trattamenti vitali – rappresentano un «segnale» seppure «simbolico» che va nella direzione di «una prova di resistenza» per la «promozione di una cultura della vita», in un mondo che «sembra andare invece in un’altra direzione». A dirlo è Alberto Gambino, professore ordinario di Diritto privato all’Università Europea di Roma, membro del Comitato nazionale per la bioetica, appena nominato dal  Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa quale membro italiano dell’Ecri, organismo del Consiglio d’Europa che vigila sul rispetto dei diritti umani.

Professore, sebbene l’esito finale non sia stato quello auspicato nonostante la concessione della cittadinanza italiana alla bambina da parte del Governo italiano, qual è il messaggio che rimane?
È stato riconosciuto dall’Italia il valore di una vita e di una vita in una condizione per cui sembrerebbe, apparentemente, non averne più. Ne è stata riconosciuta la dignità, tenendo conto, come premessa importante, che in questo caso vanno messi a confronto due Sistemi sanitari – quello inglese e quello italiano – molto diversi perché partono da due principi e si rifanno a due tipi di cultura differenti. Il primo è basato sull’efficienza complessiva delle cure e sul principio di appropriatezza delle stesse, per cui, laddove ci sia una condizione di irreversibilità della malattia, la scelta della cura va bilanciata con la sostenibilità della stessa rispetto a cure verso altri pazienti e per altre tipologie di patologie. In Italia, invece, si dà maggiore peso alla vita del singolo paziente non guaribile e si continua a curarlo anche laddove i costi siano oggettivamente alti per il Sistema sanitario. In Italia è quindi più marcato il favor vitae, purché non ci siano situazioni di accanimento terapeutico. Non credo sia scevro da questa differenza tra i due sistemi anche un fattore culturale legato a valori propri dell’etica protestante, da un lato, e dell’etica cattolica, dall’altro.

A pesare, dunque, è stato anche un fattore culturale?
Probabilmente in Italia un giudice avrebbe fatto proseguire le cure. Durante la pandemia, come non ricordare la criticabile gestione dell’allora primo ministro britannico. Nel nostro Paese non può negarsi l’attenzione complessiva, pur con mezzi e strutture limitate, verso le persone anziane, che sono state curate e che si è sempre cercato di salvare. Il Sistema sanitario inglese ha una sua logica: le risorse vengono orientate ed investite in un’ottica di benessere complessivo così da privilegiare un’eccellenza verso le patologie non irreversibili. Sul piano giuridico, sia in Italia che in Inghilterra, laddove ci sia contrasto tra l’equipe medica e la famiglia a decidere è il giudice perché la responsabilità genitoriale non ha potestà assoluta sui diritti personalissimi dei figli, come la vita e la salute. Tuttavia l’Italia aveva concesso la cittadinanza proprio al fine di consentire il trasferimento in nome del miglior interesse del minore che, probabilmente, nel nostro Paese sarebbe coinciso con un accudimento della bambina senza interromperne le terapie; da quanto emerge al Bambino Gesù sarebbero stati previsti dei protocolli sanitari legati a interventi palliativi.

Ma perché, di fatto, non è stato possibile trasferire la bambina in Italia?
Avendo due cittadinanze, Indi era sottoposta a due ordinamenti: inglese e italiano. Secondo l’articolo 9 della Convenzione dell’Aia sulla protezione dei minori, l’Italia avrebbe potuto chiedere – e lo ha fatto – all’Inghilterra di esercitare la competenza ad adottare le misure di protezione ritenute necessarie nei confronti della bambina per la sua cura. Tuttavia sarebbe dovuto accadere che il Regno Unito riconoscesse che nel loro Paese non era stato adeguatamente valutato il superiore interesse della bambina nella situazione data. Ciò avrebbe comportato un’inaccettabile ammissione di inadeguatezza dello stesso Sistema sanitario.

C’è altro che si può fare, adesso, per mitigare e riscattare il senso di rabbia e di vergogna dichiarato dai genitori di Indi?
Si può segnalare il caso al Comitato Onu sui diritti dell’infanzia: questo potrebbe arricchire il dossier su cui si impegna quel comitato; anche in questo caso occorrerà, poi, però osservare quale matrice culturale prevalga. Aldilà dei conflitti tra gli ordinamenti, certamente l’attenzione verso il caso di Indi Gregory ha rappresentato un segnale, forse solo simbolico, se non una vera e propria “prova di resistenza” per la promozione di una cultura della vita in un mondo che – purtroppo – sembra andare in un’altra direzione.

16 novembre 2023