Milo De Angelis, la limpidezza dei versi

Nella sua ultima raccolta, “Incontri e agguati”, una struttura allegorica incisiva che dà voce a una Morte che parla rivolgendosi al poeta stesso

Nella sua ultima raccolta, “Incontri e agguati”, una struttura allegorica incisiva che dà voce a una Morte che parla rivolgendosi al poeta stesso

«Questa morte è un’officina», scrive Milo De Angelis nella sua ultima raccolta, Incontri e agguati (Mondadori, pp. 65, 18 euro). E aggiunge: «Ci lavoro da anni e anni / conosco i pezzi buoni e quelli deboli, / i giorni propizi, la virtù / di applicarsi minuto per minuto e quella / di sostare, sostare e attendere / una soluzione nuova per il guasto. / Vieni, amico mio, ti faccio vedere, / ti racconto».

Basterebbero i nove versi appena citati a risvegliare la nostra attenzione. Dove trovare oggi, non solo in Italia, una limpidezza altrettanto incisiva? E chi altri avrebbe il coraggio di sostenere una struttura allegorica di tale portata, dando voce a una Morte che parla, «come il capobranco della nostra fine»? A chi si rivolge, innanzitutto questa «figura plenaria»? Al poeta stesso. E cosa gli dice? Leggiamo la prima strofa: «Sarai una sillaba senza luce, / non giungerai all’incanto, resterai / impigliato nelle stanze della tua logica». Si tratta di una minaccia feroce di cui anche noi, io credo, non solo il diretto interlocutore, dovremmo tener conto.

Questo libro, come tutti quelli composti da Milo De Angelis, ci chiama in causa. Non tanto in ragione del fatto che, ancora una volta, vi riconosciamo il vertice della poesia italiana contemporanea – ogni genitore dovrebbe leggere i pensieri dedicati al figlio a pagina 31 – quanto perché, come sempre accade in ogni vera opera letteraria, il suo cuore batte forte insieme al nostro: come quando viene evocato, con piglio dantesco, l’aldilà. «…Non puoi immaginare la mia meraviglia… /…io pensavo alla grande punizione divina, / pensavo all’incendio dei corpi e al tribunale dei santi / ma questo non accade…no…non accade…ci sono / scene bianche e scene mortali, ci sono alcuni corridori / al ritmo di un’immensa maratona…».

Tornano alla mente le inquadrature finali di The Tree of Life che Terrence Malick girò nelle dune sabbiose del Golfo del Messico. Senonché quello stesso stupore delle anime che si toccano in un’altra dimensione De Angelis lo ricolloca nella sfera quotidiana, in rapidi scorci scolastici e ferroviari dove compaiono antichi compagni di scuola: «Ti ritrovo alla stazione di Greco / magro come un rasoio e ulcerato da un chiodo / che tu chiamavi poesia poesia poesia / ed era l’inverno eroico di un tempo / che si oppone alla vita giocoliera…». E ancora «Sei tu, non c’è dubbio, riconosco / l’attacco delle tue risposte quando venivi interrogato /e le finestre del Gonzaga mostravano un cortile immenso…».

Poco più oltre: «E c’erano / già i numeri sulla maglia, i numeri giusti per ciascuno…». Il testo si chiude con una sezione intitolata Alta sorveglianza, fra i cui versi scopriamo la storia di un detenuto che ha ucciso la donna di cui era innamorato. Pagine di chirurgica sapienza stilistica e dolente evocazione lirica, nello spazio chiuso dell’epitaffio indelebile.

 

14 settembre 2015