Terremoto, l’allarme per l’indifferenza dei ragazzi

Di fronte alla catastrofe umanitaria sull’altro lato del nostro stesso mare, la percezione di una distanza e quasi di un cinismo tra coloro che hanno in dote il futuro

Conservo un ricordo nitido di quando bambino, nel 1985, il nostro maestro ci disse del terribile terremoto in Messico. Pochi giorni dopo, l’amministrazione comunale del piccolo paese dove vivevo organizzò insieme alla nostra scuola una manifestazione in piazza per raccogliere fondi a sostegno del popolo messicano: ho in mente le emozioni di quella serata, l’idea, pure ingenua, di dovermi fare carico di quella tragedia immane, di sentire mio il peso di una catastrofe eppure così lontana.

Forse fu quell’esperienza che determinò il mio modo di reagire a certi accadimenti, il senso di fratellanza istintiva verso chi vive il mistero della natura che punisce, l’impossibilità dell’indifferenza, l’idea che in certi momenti tutto il mondo dovrebbe in qualche modo farsi carico di tali eventi drammatici. Poi nel 1997 l’esperienza del terremoto in Umbria, i campi Caritas a Nocera, l’appuntamento periodico con quella natura che a un certo punto parla le parole della sua furia, la stessa idea che almeno in questi casi l’urgenza di quella catena sociale di cui parlava Leopardi dovrebbe essere come riflesso condizionato globale e universale.

Forse anche per questo vivo il disagio della percezione di una indifferenza sostanziale per quanto sta avvenendo in Turchia e Siria, oggi che le vite umane sepolte sono a un passo dalle 50.000, imponderabile il numero di chi ha perso tutto, in una catastrofe che si consuma sull’altro lato del nostro stesso mare. Nel clima surreale di un Paese che in questo tempo ha preferito intasare le bolle, anche le più pretenziose, dei siparietti sanremesi, delle piccolezze della politica nazionale, ciò che mi ha colpito di più è stata però l’assoluta impermeabilità che ho riscontrato a quanto è avvenuto anche a scuola e tra gli alunni e le alunne. Di contro ricordo altrettanto bene come nel 2004 – erano i miei primi anni da insegnante – la notizia di quanto avvenne in occasione dei terribili terremoti e tsunami nel sud-est asiatico penetrò decisamente di più nella vita scolastica: ho ancora in mente i discorsi in aula, un testo scritto svolto dalla classe di cui ho ancora traccia nel mio archivio, la scelta, da parte di tutti, di farsene in qualche modo carico anche attraverso un semplice sms di donazione.

Non si tratta di fare moraline misere sulla perdita di un senso di solidarietà universale che davvero forse non c’è mai stato, eppure, nell’epoca del tutto e sempre, dell’istantaneità delle notizie che copre ogni angolo del globo, della contezza immediata di quanto avviene, avverto come al di là del consueto l’indifferenza generale su ciò che accade in Turchia e Siria: indifferenza a ciò che dovrebbe farci fermare, almeno un istante, a considerare il destino del fratello e della sorella, indifferenza calata indistintamente su tutti noi, come una cappa di cellophane, capace di mostrare in trasparenza ciò che avviene ma tale da non farcene avvertire più il respiro. Che questo avvenga tra noi adulti, tra le nostre bolle annoiate amareggia, ma che tale cinismo si faccia sguardo assente, forma sedimentata tra coloro che hanno in dote il futuro – gli studenti e le studentesse – dovrebbe muovere domande importanti, non lasciare tranquilli, interrogare specie chi per mandato sociale ha in carico la questione educativa.

22 febbraio 2023