Il clero romano durante la guerra, l’impegno di Cunial

Nel 1998 su Roma Sette la testimonianza dell’arcivescovo, che salvò i perseguitati da parroco a Santa Lucia

«C’è una cosa che tengo a chiarire innanzitutto: a passare da eroe non ci tengo assolutamente. Ho fatto semplicemente il mio dovere. O meglio: ho assolto al mio compito di sacerdote, nello stesso spirito di carità e fratellanza che, soprattutto i quel periodo, ha animato tanti altri preti delle parrocchie di Roma». Mons. Ettore Cunial, 93 anni, è l’immagine della serenità, anche quando rievoca immagini lontane nel tempo. Immagini sbiadite ed ingiallite per coloro che non le hanno vissute in prima persona, per quelli che quando sentono parlare della guerra alzano le spalle e cambiano argomento, per quanti la storia l’hanno conosciuta solo dai libri di scuola e dimenticata in fretta dopo interrogazioni ed esami.

«Eh già, la storia è quella raccontata dai libri di testo, ma spesso – osserva l’Arcivescovo – si studia solo la minima parte di quegli avvenimenti. La storia vera la conoscono in pochi: colore che, anche loro malgrado, sono stati i protagonisti di vicende che non hanno trovato posto in trattati ed enciclopedie». Appunto, come Mons. Cunial, Vice Camerlengo di Santa Romana Chiesa, già Vicegerente della Diocesi e attuale assistente ecclesiastico del Circolo San Pietro. Con noi torna per qualche minuto nella Roma del biennio 1943-44. Ed è un torrente in piena.

Allora Monsignore, Lei era parroco a Santa Lucia alla Circonvallazione Clodia. «Lo sono stato per diciassette anni. Ma quel periodo ha rappresentato qualcosa di particolare, e non solo per le persone che abbiamo nascosto. Nel ’43 a Roma, come si può ovviamente immaginare, il cibo scarseggiava. La maggior parte della popolazione era stremata e far giungere le vettovaglie da fuori era difficile; c’era il pericolo che l’aviazione alleata bombardasse i convogli diretti nella Capitale. Allora, insieme al commissario annonario, Mariani, studiammo uno stratagemma. Facemmo coprire i camion che trasportavano il pane con le bandiere del Papa: così i bombardieri americani non osarono aprire il fuoco sul convoglio e la gente riuscì a sfamarsi».

Già, a proposito di stratagemmi, chissà quanti ne avrà studiati per salvare persone altrimenti destinate ai campi di concentramento. «Ricordo che avevamo nascosto diversi di loro sotto il tetto della chiesa, in una specie di solaio. Onestamente ho perso il conto di quanti, tra uomini e donne, abbiano, di volta in volta, salito quelle scale. Da noi si nascondevano ufficiali dell’Esercito italiano o perseguitati politici». Ma possibile che i tedeschi non abbiano mai sospettato di lei? «Sicuro che sospettavano di me – rivela tranquillamente –. Anzi, le dirò di più: probabilmente lo sapevano pure, ma non avevano le prove per inchiodarmi. Ricordo che una mattina, entrando in chiesa, trovai un fucile nascosto vicino all’altare. ordinai immediatamente al sagrestano di andarlo a gettare nei campi. Feci appena in tempo. Pochi minuti più tardi entrarono i tedeschi per effettuare un’ispezione: forse avevano saputo qualcosa, ma non trovarono nulla e se ne andarono. “Stia attento reverendo – mi diceva il commissario di zona – lei ha sempre le SS. sotto il pulpito”. In un certo senso aveva ragione. Ma fu ancora peggio – aggiunge l’Arcivescovo – quando finii davanti al commissario politico, che tentò di smascherare la mia attività clandestina. Eppure riuscii a rimanere calmo e impassibile quando, messo sotto torchio, finsi di non riconoscere un membro del Gap che aveva confessato di essere legato a me e di avermi dato dei soldi per aiutare le persone. Se avessi ceduto saremmo finiti davanti al plotone di esecuzione: fortunatamente lui se l’è “cavata” con qualche mese di prigione ed io sono stato rilasciato».

Quando gli alleati entrarono a Roma, Mons. Cunial è a Grosseto, ma rientra subito a casa. Ai fedeli che gremiscono la sua parrocchia ricorda che «la libertà di un uomo vale la nostra solidarietà. Volevo metterli in guardi per fare in modo che non dimenticassero mai quello che era successo in quei drammatici anni e avvertirli che i tempi difficili non erano affatto finiti. E soprattutto per far capire loro che per un valore assoluto come la fede si può dare la vita mille volte». Parole forti e significative. «Parole che ogni sacerdote dovrebbe sempre ripetere a se stesso e agli altri. è il suo dovere». (di Fabrizio Condò)

31 maggio 1998