Calvino e il turpiloquio, una riflessione sulla parola

Un dialogo in classe sul “parlare francamente”, a partire da un articolo del 1978. Lo sforzo di «ripensare le cose diffidando dalle espressioni correnti» e il grande problema della libertà

Per provare a migliorare nella mia classe la capacità di scrivere una buona argomentazione, recentemente abbiamo lavorato su un gran bel testo d’occasione di Italo Calvino, un articolo del 1978 uscito il 12 febbraio sul Corriere della sera e poi inserito nella raccolta Una pietra sopra del 1980 con il titolo Le parolacce. Eh sì, perché il pezzo entra proprio nel merito di una polemica molto accesa in quel periodo, quella diremmo oggi dello sdoganamento del turpiloquio, e che in quel tempo – ma niente di nuovo sotto il sole – le nuove e i nuovi giovani, quelle e quelli del Settantasette, quelle e quelli di Radio Alice e di Porci con le ali imponevano, rivendicavano e ostentavano contro le vecchie generazioni, mulinando il pulviscolo della polemica.

Al di là di quanto di mirabile possa insegnare (e abbia insegnato nella mia classe), quel testo dal punto di vista della struttura, della corretta individuazione degli argomenti e del loro sviluppo coeso e logico, della ricchezza e della sottigliezza dei ragionamenti, mi preme qui segnalare un passo che ha saputo andare oltre le semplici considerazioni formali, innescando una discussione bella. A un certo punto Calvino, a fronte di una propria tesi chiara per cui non è il turpiloquio da temere, quel turpiloquio peraltro forte di una carica espressiva indubbia e che ha saputo anche essere nobile nella nostra cultura letteraria, quanto l’abuso e l’appiattimento dello stesso a uso comune, stereotipato e quindi conformista e regressivo, scrive: «Credo poco alle virtù del “parlare francamente”: molto spesso ciò vuol dire affidarsi alle abitudini più facili, alla pigrizia mentale, alla fiacchezza delle espressioni banali».

Ecco, proprio la proposta di sciogliere insieme il significato di quel «parlare francamente», volutamente messo tra virgolette da Calvino, ha mosso gli interventi migliori, ovvero il definire, come qualcuno ha proposto, cosa significhi «dire le cose in faccia», «parlare come tutti», «dirla come la sento». Alla mia sollecitazione su come la forma poi sia sempre contenuto sedimentato, su come le parole, e in particolare il turpiloquio definiscano e determinino volenti o nolenti i pensieri, i corpi, le azioni e quindi l’essere, i riferimenti si sono allargati e inevitabilmente si è finiti a dibattere animatamente sulla volgarità ma anche sullo svilimento verbale in questo tempo, dalle forme per loro attualmente canonizzate come accade per la musica trap, ma anche e più semplicemente, ma non meno acutamente, alla propria esperienza personale.

La conclusione del pezzo di Calvino ci ha trovato tutti e tutte – apparentemente dico io – concordi («È solo nella parola che indica uno sforzo di ripensare le cose diffidando dalle espressioni correnti che si può riconoscere l’avvio di un processo liberatorio») anche se, proprio a un secondo dal suono della campanella, un ragazzo ha chiosato «ecco, appunto, il problema però è quello della libertà», il che, per una lezione partita sulle buone strutture del testo argomentativo, m’è sembrato essere un epilogo inaspettato, non da poco, ma assolutamente pertinente e felice.

25 gennaio 2023