La camicia intrisa di sangue di Livatino, simbolo di una testimonianza vissuta fino in fondo

Il presidente dell’Ac Giuseppe Notarstefano racconta l’impronta profetica del giudice ucciso dalla mafia, a partire dai ricordi personali, nella parrocchia di Canicattì in cui il giovane magistrato era impegnato

Nella foto, il presidente nazionale dell’Azione cattolica italiana Giuseppe Notarstefano

Era di Ferragosto. Il giudice andò al carcere “Petrusa” di Agrigento per scarcerare una persona che aveva finito il suo tempo di custodia cautelare.  «ll secondino gli disse: “Dottore, poteva farlo domani e oggi godersi la giornata di festa” – ha raccontato Giuseppe Notarstefano, presidente nazionale dell’Azione cattolica italiana – ma Rosario Livatino gli rispose che nessuno doveva restare in carcere un minuto in più del necessario». Nella parrocchia in cui era impegnato il magistrato beato, San Domenico a Canicattì, cresceva anche Notarstefano, che mercoledì 18 gennaio ha raccontato ai presenti, in occasione dell’arrivo della reliquia del giudice nella parrocchia  di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi,  i suoi ricordi personali e l’impronta profetica di Livatino.

Cosa resta nel cuore guardando quella camicia arrotolata e macchiata di sangue?
Quella camicia è il segno di un martirio duplice. Il primo è il martirio del cristiano, come è stato riconosciuto dalla Chiesa nella causa di beatificazione. Perché Rosario ha vissuto il suo essere giudice, il suo impegno per la giustizia, pienamente da cristiano.  Lo ha fatto in una terra come la Sicilia, un tempo attraversata da grandi violenze, dove il potere mafioso sembrava prevaricare su tutto a sfregio delle regole. Lui ha cercato, mediante la giustizia, di affermare il rispetto per le persone, e in questo senso è un martire in “odio alla fede”. Livatino poi è martire anche per i non credenti, un martire laico, come Falcone e Borsellino. Sì, quella camicia è il simbolo di una testimonianza vissuta fino in fondo, del desiderio di compiere il proprio dovere e, insieme, la propria vocazione.

Sotto la reliquia, due libri: la Bibbia e il codice penale. Nella parte superiore, invece, la scritta “STD”. In un oggetto, “la storia di un’anima”.
Sì, “STD”, come si sa, è un acronimo che significa “Sub tutela Dei”, “Sotto la protezione di Dio”. Lui lo scriveva nei suoi diari dove annotava pochi pensieri, i suoi appuntamenti. Ma non è solo una sigla, bensì una vera risonanza spirituale. È il sigillo di chi vive continuamente la presenza di Dio, di chi ha un rapporto costante con Lui, e anche quando non lo sente o fa fatica, sa di camminare sempre alla luce del Signore. Rosario lo aveva scritto anche sul frontespizio della sua tesi di laurea, una sorta di pratica spirituale, per aprire l’anno e metterlo sotto la protezione del Signore».

In Livatino c’è l’essenza pura del laicato, con una spiritualità profonda che si lega a un impegno viscerale nella propria professione. Lei lo ha conosciuto, che tipo di persona era?
Il giudice Livatino, quando io l’ho conosciuto, era un giovane magistrato molto apprezzato. Era una persona semplice e umile, non uno di quelli che amavano gli onori o le prime file. Partecipava alle riunioni, dava il suo contributo, faceva interventi da cui si capiva che aveva un profondo rapporto con la Parola di Dio. Poi era molto timido. I suoi compagni di scuola scherzando lo chiamavano “centuno anni”, perché era molto saggio già da giovane. Però questo ne faceva anche un punto di riferimento, una persona affidabile, un amico fedele. Ha vissuto tutta la fase dopo l’università fino all’ingresso in magistratura cercando di evitare qualsiasi forma di etichetta, e infatti non si tesserò più ufficialmente in associazione. Questo per dare l’idea che il giudice deve essere sempre imparziale.

Ha un ricordo personale di lui?
Ricordo che era una persona schiva, si sedeva sempre all’ultimo banco in chiesa e in genere andava alle Messe della mattina, con la sua valigia. Poi ricordo una conferenza che fece al mio liceo, quando lo abbiamo incontrato nell’ambito di un percorso sul Maxi processo. Mi colpì il tratto dello studioso. Non parlava come un giudice, non aveva parole di risentimento nei confronti dei mafiosi, che pure lui cercava di giudicare e colpire. Ma ecco, aveva uno sguardo che andava oltre, cercava di capire il fenomeno e tutte le sue cause. E poi mio padre era il medico di tutta la famiglia di Rosario.

Se dovesse pensare a due sue caratteristiche di Livatino da consegnare ai giovani?
Direi prima di tutto la sua perseveranza, che se vogliamo è l’arte di vivere nella speranza vera, non nel placido ottimismo, ma consapevoli che la storia è guidata dal Signore. Poi anche la gentilezza, maturata in un contesto familiare di buona educazione, studio, rispetto. Una gentilezza che si manifesta fino all’ultimo. Raccontava uno dei killer che quando lo assaltarono con la moto, lui fece un gesto come a voler tentare una retromarcia, invece di scappare con la macchina o di rispondere all’assalto. La sua è una naturale delicatezza, è rispetto dell’altro.

In questi giorni davanti alle immagini della cattura di Matteo Messina Denaro, viene spontaneo credere che per alcune persone quasi non ci sia occasione di redenzione. Uno come Livatino, che amava l’essere umano e “vedeva oltre”, cosa avrebbe detto?
Livatino si sarebbe certamente compiaciuto di questo successo della magistratura e delle forze dell’ordine, perché una persona che doveva essere messa di fronte alla giustizia era stata finalmente catturata. Ma poi sarebbe appunto “andato oltre” proprio nel desiderio che questo evento fosse per questa persona una possibilità di redenzione. Avrebbe detto che anche per lui c’è la possibilità di rialzarsi, pentirsi e di cambiare vita, proprio mentre sconta la pena.

20 gennaio 2023