Cattolici ed ebrei a confronto sul tema della consolazione

L’occasione: la 34ª Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo, con il rabbino capo di Roma Di Segni e la biblista Virgili. L’atteggiamento «materno» di Dio e la chiamata a «credere nell’impossibile e annunciarlo»

Il verbo “consolare” non ha a che fare solo con il “lenire il dolore” ma anche e soprattutto con l’offrire una prospettiva di speranza nel futuro, basata sulla certezza dell’amore di Dio e sulla potenza performante della sua Parola. Questo il cuore della riflessione proposta ieri, 17 gennaio, dal rabbino capo della Comunità ebraica di Roma Riccardo Di Segni e dalla biblista Rosanna Virgili, che si sono confrontati sul capitolo 40 del testo del profeta Isaia – “Consolate, consolate il mio popolo” – in occasione della 34ª Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei. Il tradizionale incontro – istituito nel 1989 e da celebrarsi il giorno prima della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani – si è svolto nella Sala Tiberiade del Seminario Romano, a San Giovanni in Laterano, alla presenza, tra gli altri, di monsignor Baldo Reina, nuovo vicegerente della diocesi di Roma, e del vescovo ausiliare Benoni Ambarus.

A introdurre i lavori, monsignor Marco Gnavi, incaricato diocesano per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, che ha sottolineato «la bellezza della continuità di questo appuntamento e il valore che ha nella nostra formazione», mentre il vescovo ausiliare Riccardo Lamba, delegato diocesano per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, si è detto «contento di questo incontro che ci permette di andare alle radici della nostra fede cristiana, che sono legate alla cultura ebraica».

Il tema della consolazione, ha spiegato Di Segni, «è un tema radicato come presenza costante nella nostra esperienza religiosa, secondo la quale bisogna però uscire dal tunnel del dolore e della disperazione e per fare questo è appunto necessario trovare parole di consolazione», perché «bisogna dire che la nostra vita continua». A consolare, ha continuato il rabbino, «è Dio per mano dei profeti», che danno voce a quell’atteggiamento «materno e di affetto di Dio, un atto che ricorda l’abbraccio materno dell’infanzia». Ancora, Di Segni – che ha notato come nel testo di Isaia l’imperativo “consolate” sia posto al plurale e venga ripetuto due volte «pensando a un intero popolo e a un’intera nazione da consolare e non solo qui ma anche nel mondo futuro» – ha guardato al tema della consolazione dal punto di vista psicologico, osservando come «per consolare chi ad esempio viva il dolore del lutto serve prima di tutto l’empatia, cioè quel saper soffrire insieme, e poi soprattutto bisogna instillare la speranza, tema centrale di questo brano biblico», perché «è nota la differenza tra la realtà umana e quella divina: l’uomo è come erba che si secca e muore ma la Parola di Dio dura in eterno». La speranza, ha concluso quindi Di Segni, deriva dall’«avere fiducia in Dio, che interviene dopo le cose terribili che sono accadute».

Anche Rosanna Virgili, docente di esegesi all’Istituto teologico marchigiano, ha messo in luce come «consolare significa credere che nel futuro quanto la Parola ha annunciato, detto e realizzato accadrà ancora», sottolineando che «la Parola dura per sempre» perché «è ciò che resta, che è solido e stabile. È accaduta infatti la salvezza del Mar Rosso ed è accaduta la Terra Promessa perché Dio ha pronunciato la Parola». In particolare l’esperta ha spiegato che «consolare significa allora spingere a gridare perché se i nostri padri furono capaci di farsi udire e vennero poi ascoltati, così accadrà anche a noi». Dunque Virgili ha offerto un cambio di prospettiva perché «solitamente “gridare” ci fa pensare al dolore e al soffrire ma c’è anche il grido di “cattura” – ha chiosato -, come quello delle madri nell’Esodo, del popolo schiavo, che si trovava tra la vita e la morte. Il popolo grida e Dio lo ascolta e scende per vedere il suo popolo e poi se ne prende cura», fino a quando «Gesù, prima di salire al Cielo lascerà il Consolatore». Allora «consolare significa credere nell’impossibile e annunciarlo – sono ancora le parole della biblista – perché non c’è consolazione che Dio possa dare se non c’è chi la accolga e chi la annunci e nell’annuncio c’è già la Sua venuta», in funzione del carattere «perfomativo della Parola».

Concludendo, Virgili ha quindi notato l’importanza di guardare al passato e a quanto la Parola ha realizzato per comprendere che il suo potere può ripetersi perché «il futuro viene da dietro e la memoria è la culla del futuro». Da qui l’importanza di «riflettere su quanto è già accaduto» perché se consolare significa prendersi cura del popolo caduto nelle illusioni dei populisti» bisogna domandarsi «come possiamo mai costruire il futuro basandoci su una conoscenza pressappochista del passato».

18 gennaio 2023