4 mesi di coronavirus in Italia, il bilancio di Franco Locatelli
Il 29 gennaio venivano ricoverati allo Spallanzani i coniugi di Whuan, primi casi di contagio nel nostro Paese. Il presidente del Consiglio superiore di sanità guarda agli effetti della pandemia e valuta le prospettive future. «Guai se ci considerassimo fuori»
Esattamente 4 mesi fa, il 29 gennaio, venivano ricoverati in terapia intensiva all’Istituto Lazzaro Spallanzani i coniugi cinesi originari di Whuan, i primi casi di contagio da coronavirus registrati in Italia. Risultati negativi al virus dopo più di un mese, furono trasferiti entrambi all’ospedale San Filippo Neri per la riabilitazione neuro-motoria. Completamente guariti, sono stati dimessi lo scorso 20 aprile. Da quel primo ricovero, secondo i dati della Protezione civile di ieri, 28 maggio, il numero totale di coloro che hanno contratto il virus in Italia è di 231.732, con 33.142 decessi. In terapia intensiva si trovano ancora 489 pazienti, mentre sono 7379 le persone ricoverate con sintomi e 40118 quelle in isolamento domiciliare. I guariti hanno raggiunto quota 150.604.
Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità, fa un bilancio di questi ultimi 4 mesi, guardando agli effetti della pandemia nel nostro Paese e valutando le prospettive future. L’esperto rivolge anche un appello affinché chi dovesse «venire contattato dalla Croce rossa italiana per partecipare allo studio di sieroprevalenza, utile per capire come e dove si è diffuso il virus nelle diverse regioni oltre che per identificare la percentuale e il ruolo dei pazienti asintomatici, non si tiri indietro ma faccia la sua parte, con senso civico e di responsabilità».
A che punto siamo, professore?
Le risposte che stiamo ottenendo in questi ultimi giorni, legate alla riduzione dei parametri epidemiologici, con un indice di contagio che oscilla tra lo 0,5% e lo 0,7% praticamente in tutte le regioni, sono gratificanti. Si tratta del risultato positivo dato dalle misure messe in atto dal governo con il lockdown, un intervento che, correlato ad una strategia di sanità pubblica, non era facile e scontato attuare e il cui valore non viene mai sottolineato abbastanza. Le necessarie restrizioni hanno rappresentato delle scelte difficili perché si aveva chiara la percezione dell’impatto che avrebbero avuto non solo sulla qualità di vita delle persone ma anche sulle attività del Paese, con le relative conseguenze economiche. Ma è in questo modo che si è sostanzialmente evitato l’espandersi dell’epidemia nelle zone centrali, meridionali e insulari dell’Italia. Tuttavia, nonostante i buoni risultati raggiunti, guai se ci considerassimo fuori dalla pandemia. A fronte di un generale trend discendente nel numero dei contagi, infatti, ci ancora decine di morti e nei giorni scorsi sono tornati a salire in alcune regioni i nuovi positivi. Questi dati devono fare da monito e richiamare alla responsabilità ognuno di noi perché sarebbe imperdonabile vedere vanificati gli sforzi compiuti e, più di tutto, vorrebbe dire non onorare la memoria di coloro che di questo virus sono morti.
Cosa dunque è importante continuare a fare per evitare questo?
Ci sono cinque “comandamenti” che vanno assolutamente osservati. Il primo è evitare gli assembramenti, cui segue immediatamente l’accortezza di utilizzare i dispositivi di protezione come le mascherine, specialmente laddove non sia possibile garantire la cautelativa distanza di almeno un metro tra le persone, e questo è il terzo punto fondamentale. Va sottolineato che tale misura va aumentata a 2 metri quando ci si trova in condizioni in cui le emissioni di droplet, le particelle che veicolano il virus, sono più facili da diffondere, come è ad esempio in palestra, dove si fa attività sotto sforzo, o se si prende parte a un coro. Ancora, è importante lavare le mani frequentemente nell’arco della giornata con acqua e sapone o con soluzioni idro-alcoliche adeguate. Infine, non bisogna uscire di casa se si accusano sintomi influenzali, se si ha la tosse o se si presenta uno stato febbrile. Si tratta di misure e comportamenti che richiamano alla responsabilità individuale.
Riguardo all’uso delle mascherine, è vero che possono provocare effetti collaterali come la non corretta ossigenazione del cervello, specialmente nei bambini?
Far indossare i dispositivi di sicurezza ai bambini di età inferiore ai 6 anni è chiaramente un obiettivo non perseguibile mentre dai 6 anni la mascherina va indossata come strumento di protezione per sé e per gli altri. Non ci sono problemi di nessun tipo. Alcune notizie e informazioni che si sentono circolare rientrano nel campo delle cosiddette “leggende metropolitane”.
Rientra in questa categoria anche la convinzione che le temperature più calde dell’estate abbatteranno il virus?
Non ci sono dati scientifici inconfutabili in tal senso e tuttavia va detto che è ipotizzabile che il caldo e un clima più secco possano avere un effetto protettivo, come accade per altre infiammazioni respiratorie da virus, per le quali il picco dei contagi si registra nei mesi più umidi e freddi.
Dobbiamo quindi aspettarci una seconda ondata di Covid-19 in autunno?
Non è escludibile e per questo ci si sta attrezzando nel migliore dei modi per essere eventualmente pronti ad affrontare una nuova fase di contagi. Non vi è però alcuna certezza assoluta ed è impossibile fare ogni tipo di previsione, per cui ogni ragionamento a riguardo è aleatorio. Molto dipenderà dalla circolazione virale che si realizzerà nelle diverse regioni nei prossimi mesi.
Per una soluzione concreta è dunque necessario attendere il vaccino?
Sicuramente si tratta di una soluzione che potrebbe contribuire in maniera determinante. Si sta compiendo in tale direzione un enorme e virtuoso sforzo sia in ambito accademico, con la ricerca, sia in ambito industriale, tuttavia non è immaginabile, pur nell’urgenza, eludere le tappe necessarie per garantire la sicurezza vaccinale. In media per sviluppare un vaccino ci vogliono dai 5 ai 10 anni. Potremo quindi parlare di un grande risultato ottenuto e di uno straordinario successo se saremo in grado di offrire una terapia vaccinale per il coronavirus nella prossima primavera. Tengo a dire a riguardo una cosa da scienziato e prima di tutto da uomo: il vaccino, come ogni vaccino, deve essere solidalmente disponibile in e per tutto il mondo: sarebbe una intollerabile ingiustizia fare ogni tipo di discriminazione sociale.
Cosa può dire invece in merito alla terapia a base di plasma per la cura del Covid-19?
È scientificamente da lungo tempo acquisito il principio per cui il plasma di pazienti guariti può proteggere e aiutare il malato di infezione grazie al trasferimento di anticorpi neutralizzati. Ci sono dati scientifici interessanti anche per quanto riguarda la cura del coronavirus ma per onestà intellettuale va detto che l’efficacia riguarda un numero limitato di pazienti e di sicuro i risultati positivi ottenuti vanno verificati mediante uno studio clinico randomizzato. Nello specifico si tratta dello studio nazionale comparativo randomizzato denominato “Tsunami” (TranSfUsion of coNvaleScent plAsma for the treatment of severe pneuMonIa due to SARS.CoV2), attivato su indicazione del ministero della Salute, promosso dall’Istituto Superiore di Sanità e dall’Aifa e che vede al momento coinvolti 56 centri, distribuiti in 12 regioni.
29 maggio 2020