1975, Poletti ricorda Rovigatti

Il porporato celebrò i funerali del presule: «Il suo ministero ha scavato solchi indelebili nella storia delle anime»

Da Romasette del 19 gennaio 1975

 

Mons. Luigi Rovigatti, dal 10 febbraio 1973 Vicegerente di Roma, è spirato santamente il 13 gennaio scorso nella Clinica di Santo Stefano Rotondo, dopo lunghi mesi di indicibili sofferenze, sopportate in modo esemplare ed offerte con grande spirito sacerdotale per la comunità ecclesiale di Roma. Per questo il suo funerale, nella basilica di S. Giovanni in Laterano, fu un trionfo di partecipazione diocesana e di commossa pietà. Hanno concelebrato con il Cardinale Vicario Ugo Poletti, 18 vescovi rappresentanti tutta la regione laziale ed amici ed estimatori del defunto Presule, oltre 220 parroci e sacerdoti di Roma, mentre assisteva, con i parenti, gran folla di sacerdoti e di fedeli, e tra questi una qualificante rappresentanza del Comune di Roma con il Sindaco, on. Clelio Darida e sei Assessori.

Mons. Rovigatti era nato a Monza il 23 aprile 1912; aveva compiuto gli studi al Pontificio Seminario Romano, dove era stato ordinato sacerdote il 1° dicembre 1935. Per circa vent’anni fu parroco della Natività prima di essere eletto Vescovo Ausiliare di Porto e S. Rufina, poi di Tarquinia e Civitavecchia, quindi Vicegerente di Roma.

All’omelia il Cardinale Vicario Ugo Poletti, dopo aver partecipato ai presenti il commosso telegramma del Santo Padre, quasi interpretando la lezione di vita sacerdotale che veniva a tutti «come luce e gioia» da Mons. Luigi Rovigatti, diceva:

Mons. Luigi Rovigatti ci parla anzitutto del grande dono che il Padre ha elargito ai suoi figli, ed alla umanità intera nel Sacramento eterno ed universale del suo divin Figlio Gesù, del quale poi il ministero sacerdotale di ciascuno di noi, vescovi e presbiteri, diventa partecipazione, estensione e specchio «per la vita del mondo». Un sacerdozio misterioso dove tutto è gioia, salvezza e gloria, solo perché tutto è offerta, vittima, e immolazione fino alla fine, unicamente per amore.

 «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi delizio. Ho posto il mio spirito su di lui…» (Is. XLII, 1). Così ha detto il Padre non solo del suo Messia, ma anche di don Luigi il quale il 1° dicembre 1935 accettò l’ordinazione sacerdotale con l’entusiasmo di un privilegiato e la visse poi con la consapevolezza di un consacrato nei 20 anni di vita parrocchiale alla Parrocchia della Natività in Roma e specialmente dal 29 giugno 1966, quando fu ordinato Vescovo e Amministratore Apostolico di Tarquinia e Civitavecchia.

 Del sacerdozio Mons. Rovigatti tuttavia non cercò mai la gloria, bensì la funzione di mediazione che fa dell’offerente una cosa sola con la vittima: come Gesù! Chi lo ha potuto avvicinare intimamente ha esperimentato che egli ha vissuto il ministero sacerdotale in modo lineare ed essenziale, senza tentennamenti e senza deviazioni, senza lasciarsi esaltare dalle consolazioni, senza lasciarsi deprimere dalle prove: nessuna interpretazione umana ha mai separato il suo sacerdozio dalla croce di Gesù, fino all’ultimo «consummatum est».

 Per questo il suo mistero fu sempre efficace ed ha scavato solchi indelebili nella storia delle anime: il dolore ha bensì «arato» il suo corpo, come i flagelli hanno solcato le carni di Gesù; ma a sua volta egli ha portato e mostrato in sé Gesù, il Salvatore con evidenza soprannaturale. Lo ricordano i parrocchiani della Natività in Roma, come i fedeli di Tarquinia e Civitavecchia, come tutto il Clero romano.

 Io credo che Gesù, fin dal principio gli abbia chiesto, chiaramente come già chiese agli Apostoli Giovanni e Giacomo: «Potete bere il calice che io sto per bere?» (Mt. XX, 22). Egli ha risposto, semplicemente: lo posso e lo voglio: fino in fondo, fino all’ultima goccia, letteralmente! Non saprei spiegare diversamente la sua terribile agonia di quasi due mesi, all’inizio in un dolore lancinante, poi in una sofferenza continua ma pacata, nell’immobilità del corpo e nella lucidità dello spirito.

 Sapeva di morire, a goccia a goccia; neppure le pie ed illusorie frasi consolatrici degli amici lo ingannavano! Come sempre, richiamava sé e i suoi alla realtà con un gesto, uno sguardo, un muovere di labbra non impaziente, ma realistico, distaccato dalle illusioni. Sacerdote ed ostia: negli ultimi mesi ha donato la sua vita, soprattutto per il Clero, per i sacerdoti che amava di più, quelli che sapeva turbati nell’anima o nella vita: i suoi amici: «vos autem dixi amicos!».

 Così Roma, che tanto poco ha potuto godere del suo Ufficio di Vicegerente, ha invece potuto usufruire di lui come vera e preziosa vittima, in un tempo particolarmente significativo di passione e di crescita nella realtà della sua vita di Chiesa. Mons. Rovigatti che ci ha parlato del sacerdozio con evidenza tanto soprannaturale e realistica ad un tempo, additando il cielo e testimoniando la sua Fede nella vita eterna, può ora parlarci di un altro valore che egli ha pure vissuto in modo autentico e sublime: la sua profonda umanità.

 Deve avere profondamente le parole di San Paolo: «Ogni sommo sacerdote preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio… Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza… (Hebr. V, 1, 3). Aveva la capacità e il segreto di fare amicizia, di legare a sé gli animi al di fuori e al di sopra di ogni sentimentalismo. Anzitutto aveva il culto della persona altrui, della dignità dell’interlocutore, che poi si tramutava in un discorso tanto più efficace quanto più franco e schietto, che ispirava fiducia.

 Cercava prima la buona volontà e poi il cuore di chi gli stava di fronte, donando schiettezza per ottenere sincerità e confidenza. La logica stringente della dottrina, che possedeva profonda, veniva poi. Aveva certo il dono del conversare sapido e sostanzioso, senza misurare il tempo, perché il tempo conta poco a paragone dell’amicizia.

 Questo dopo lo riservava quasi esclusivamente per i sacerdoti: si sentiva fatto per loro e consacrato a loro. Da Vescovo egli era come il Divino Maestro tra i discepoli paziente e longanime. Gli interessava meno concludere situazioni ingarbugliate che guadagnarsi un’anima; poiché così abitualmente opera il Signore, il quale cerca amore, ben sicuro che poi otterrà tutto il resto. In mons. Rovigatti l’umanità di Gesù faceva strada alla sua divinità.